giovedì 8 ottobre 2015

CALOGERO CARITA', Verona 1 Ottobre 2015 – Presentazione del romanzo “La via breve” di Diego Guadagnino

Giovedì 1 ottobre 2015, nella sala Carlo Montanari della Società Letteraria di Verona, è stato presentato il libro “La via breve” di Diego Guadagnino, avvocato penalista di Canicattì (Ag.), città nota per la ricca produzione dell’Uva Italia e luogo natio del giudice Livatino ucciso dalla mafia.


Guadagnino è conosciuto per i suoi scritti di storia contemporanea e di critica letteraria su riviste e periodici ed è autore di una pregevole silloge di poesie, “Trasmutazione” (Ragusa 2007). Presente numeroso e qualificato pubblico, sono intervenuti Paola Azzolini, critico letterario e giornalista del quotidiano L’Arena di Verona, il prof. Calogero Carità, dirigente scolastico emerito del Liceo delle Scienze Umane e Musicale “C. Montanari” di Verona e presidente del Circolo Culturale “L. Pirandello” di Verona. Ha coordinato l’evento promosso dal Circolo Culturale “L. Pirandello” e dalla Società Letteraria di Verona, il prof. Luigi Gangitano, mentre brani del libro sono stati letti dalla prof.ssa Luisa Filippini.
       Riportiamo di seguito il testo dell’intervento del prof. Calogero Carità.


La via brevecostituisce la prima esperienza di narratore di Diego Guadagnino e come ha giustamente scritto nella prefazione Maria Attanasio, questo suo interessante lavoro “sta in bilico tra il saggio e il racconto”.
Si tratta di un viaggio della memoria verso il passato, un genere molto presente non solo nella narrativa siciliana, ma nella narrativa in generale, che Guadagnino rivisita e reinterpreta in modo tutto suo personale.
E’, infatti, un viaggio a ritroso, un ritorno nei luoghi della sua infanzia, con l’intento di riscoprire quegli ambienti, quel vissuto, quella civiltà contadina che non c’è più, che il mondo globalizzato ha trasformato o addirittura cancellato, ma che Guadagnino intende far rivivere attraverso questo suo pregevole lavoro, piacevole nella lettura, grazie al modo chiaro e scorrevole con cui l’autore si esprime.
E’ un modo di sfogliare a ritroso un vecchio album fotografico che custodisce una sorta di galleria di personaggi simili a quelli del mondo verghiano che permettono attraverso lo scorrere delle pagine di questo libro di conoscere vicende storiche e drammi sociali e familiari di persone sicuramente vissute in anni in cui –il riferimento dell’autore è ai primi anni cinquanta- quando non solo nella sua città, sostanzialmente sostenuta da una economia tipicamente agricola e pastorale, ma in quasi tutti i comuni della Sicilia le dinamiche sociali, nel primo periodo del dopoguerra, erano ancora davvero molto laceranti, la fame era tanta e le ingiustizie altrettante.
E in verità, solo chi è nato in quel periodo e in quelle terre può testimoniare e riferire alle nuove generazioni, quanto e quale sia stato il salto di qualità nella vita quotidiana di quei luoghi, nonostante restino ancora evidenti contraddizioni sociali, dove la politica, che purtroppo vola sempre in modo molto radente e non è estranea a certe amare collusioni, nonostante l’ostinata volontà di cambiamento della gente, gli ha negato e gli nega ancora ogni speranza di futuro.
La via breve” si identifica con la “vaneddra”, che può essere una strada periferica di un borgo cittadino, abitato da gente umile, da artigiani e contadini, ma anche da malandrini, o anche una strada del vecchio centro storico dove in piccole unità abitative vive tanta povera gente, spesso in promiscuità anche con le bestie, che lotta quotidianamente per la sopravvivenza, ma senza alcuna rassegnazione però, tenendo sempre presente la speranza di migliorare a differenza dei personaggi verghiani che erano condannati a subire permanentemente il loro triste destino.
La “vaneddra” per Guadagnino è la continuazione corale degli spazi domestici; essa, dunque, non conduce a nessun posto che non sia legato al mondo che si lascia a casa.
Nella “vaneddra”, pertanto non c’è posto per l’individualismo, come non c’è posto per il segreto e per il privato, tutto appartiene a tutti, tutto deve essere partecipato al vicino. Soprattutto in estate la vita si trascorreva nella “vaneddra”, ognuno vi occupava il proprio spazio davanti al proprio uscio di casa, vuoi per lavorare l’estratto di pomodoro, vuoi per pettinarsi, vuoi per rammendare gli umili panni o per fare il bucato, con intermezzi di cronaca sui fatti e personaggi della “vaneddra”, ma senza sparlittìo, vuoi anche per recitare il rosario o qualche requiem. Le disgrazie, gli innamoramenti, le fuitine, i rapporti di coppia clandestini, le malandrinate, le ammazzatine, i raggiri, i contrasti storici tra contadini e pastori erano patrimonio di tutti i “vaniddrari”
Guadagnino, che è l’io narrante del suo libro, ha conosciuto questo mondo da bambino e lo riscopre da adulto, potendo con serenità sottoporlo ad una ricognizione attenta che gli consente di dare forma a fatti e personaggi verso i quali non può non esprimere i suoi sentimenti di rispettosa pietà, ma nello stesso tempo tutta quanta la sua indignazione per questa sofferente umanità lasciata vivere ai margini.
La “vaneddra”, pertanto, non è il corso principale del paese, dove prospettano i palazzi della vecchia aristocrazia blasonata e i palazzotti dell’agiata borghesia paesana, lontane dai bisogni di chi per generazioni è vissuto nel sottosviluppo e nell’emarginazione. Non è neppure la strada che conduce al di là di tutti gli orizzonti.
Particolarmente presente è il tema dell’emigrazione, le laceranti partenze alla stazione, l’angoscia per una lettera che non arriva, la tristezza della lontananza, la figura di un postino che da comparsa diventa attore, la scoperta di un mondo diverso, come quello tedesco, dove tutto è ordine e pulizia soprattutto tutto è moderno. E dove è possibile dare ai tedeschi del cornuto senza paura di “sparatini”. Così è presente la figura dell’emigrato che alla fine ritorna nella sua terra, nella propria casa, ai propri affetti, recando con sé una fetta di benessere che aveva conosciuto nel nuovo mondo. E molti di questi nella “vaneddra” si vantano dei guadagni in Germania, dove si lavorava poco e si prendeva di più.  Ma a questi il saggio ripeteva “sta’ beni e ‘un dillo a nuddru”. Come dire non rivelare agli altri i tuoi guadagni, perché potresti pentirtene.
“La via breve” è anche una ricca galleria di personaggi. Citiamo quelli che ci sono parsi più significativi:
Marianna Zucchetto, morta suicida, vittima di una logica tribale. Abitava ‘nni lu curtigliu di la dannata; Niculina la muta, vestale del silenzio per protesta. Morta la madre, il padre le impone di non sposarsi per accudire lui e il fratello. Ma per protesta non parlò per tre anni; la za Arfonsa, detta scecca di parrini”; aveva il compito di raccoglie in chiesa –come era triste consuetudine in Sicilia- l’obolo dovuto per l’uso della sedia e si arrabbiava quando incontrava qualcuno che voleva pagare anche per altri che stavano in file diverse; la zia Gina, rimasta zitella, era in cerca di un buon partito e l’aveva trovato in Peppino, ricco commerciante che all’improvviso fu dichiarato fallito. Il fidanzamento fu scombinato e i regali restituiti, non perché Peppino era fallito, ma perché glielo aveva nascosto. Peppino si buttò giù da un ponte. Di proposte poi ne aveva avute tante, ma tutte rifiutate, dato che nessuno era sufficientemente ricco. Poi sposò un impiegato comunale che le lasciò il bastone del comando. Gina era una “cavalla”, non solo per imponenza fisica, ma perché non lasciava spazio a suo marito in casa; Miluzza (Carmelina), vittima di una sporcata della zia che aveva preparato il caffè ad un malandrino, il quale a sua  volta  aveva imposto al marito il silenzio e l’onere delle corna. Alla fine si fidanzò con un forestiero; Caliddru (Calogero) lu capraru, aveva dato alle capre i nomi di donne: Finuzza, Caluzzeddra, Mariannina. Fu trovato morto una mattina, ucciso dietro il camposanto. Caliddru fu ucciso da malandrini, verità che tutti dovevano sapere ma che nessuno doveva dire. Ma in ogni caso non si ammazza un cristiano per niente. D’altronde nessuno osava disapprovare quello che i malandrini combinavano. E guai a chiedere chi fossero i malandrini. Bisognava pensare ai fatti propri; i comunisti Micalangilu (Michelangelo) e Maruzza (Maria), le sole voci della vaneddra contro i malandrini. Mangiapreti, pronti ad occupare il Vaticano e trasformare le chiese in sale da ballo. Con l’inno “Bandiera rossa” rompevano la monotonia nella vaneddra; Firrigno il fruttivendolo. Poeta di strada, anticlericale andava predicando progresso, giustizia e uguaglianza. Era partito clandestino per la Francia e per questo aveva venduto mulo e carretto. Bloccato alla frontiera e rimpatriato, si dovette accontentare di una carriola per vendere limoni. Un morto di fame che non aveva saputo sfruttare la sua intelligenza, mettendosi con la parte giusta, come avevano fatto tanti  come lui  passando nella DC; Vicio (Vincenzo) Calì, detto brillantina, aveva fatto la campagna elettorale ad un democristiano che lo aveva sistemato. Un miraggio per i contadini. “Nenti fazzu”, diceva con orgoglio a chi lo incontrava,  e soprattutto non aveva padroni; Sariddru (Rosario) La Farina, mutilato civile di guerra che aveva perso la gamba destra. Mutilato anche il fratello Vanni (Giovanni), rimasto privo pure della gamba destra, che si era potuto permettere una protesi che la domenica prestava al fratello per andare a messa.  Grazie alla sua mutilazione “lu zi sariddru” era diventato un bollettino meteorologico, tant’è che avvertendo le mutazioni del tempo dava ai contadini i necessari avvertimenti e per questo veniva ripagato con doni in natura neanche fosse il dio della pioggia; Fanu (Epifanio) lu ludiu, un vagabondo con poca voglia di lavarsi; Vastiano (Sebastiano) Scarpiscionti, contadino che uccise il pastore Candido Salemi. Ebbe riconosciuta la seminfermità. Quando uscì dal carcere sapeva di essere un uomo morto. E una sera, venendo dalla campagna, lo aspettavano in due. Lui capì. Fu ucciso la stessa notte; donna Castenza. Era la mammana della vaneddra. Morì carbonizzata da un fulmine mentre dalla finestra seguiva il temporale. La sua morte fu vista come una punizione di Dio per tutti gli aborti clandestini che aveva praticato per amore di soldi e sulla coscienza aveva anche la morte di una ragazza per un aborto mal riuscito. Il fratello provò ad affittare la casa, ma gli inquilini erano assediati dagli incubi. Vedevano piccoli nani che continuavano a scavare fosse. Era gli spiriti di quei bambini uccisi e mai nati, rimasti in quella casa.

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