(Saggio critico su TRASMUTAZIONE)
Kali-Yuga, ovvero l’età oscura, quella attuale, secondo la
tradizione indù, come riporta in nota l’autore nel sonetto posto in limine alla raccolta, tra l’altro
eccellentemente presentata da Andrea Guastella, è già una dichiarazione di
poetica che anticipa o da cui trae sviluppo questo primo libro di Diego
Guadagnino (Trasmutazione, Ragusa
2007): primo libro, ma non opera prima, avendo tutte le caratteristiche, i
connotati dell’opera unica.
Ne vedremo il perché strada facendo. Una prima
impressione generale evoca l’immagine di uno straordinario cilindro
illusionistico dal quale il poeta estrae, uno dopo l’altro la meraviglia di una
parola che contiene, forse, il segreto o la magia della poesia vera. Quella che
meraviglia, appunto, e colpisce il lettore con la forza di un evento
straordinario e lo spinge a chiedersi e a rispondersi che allora è vero che la
poesia autentica giunge sempre in punta di piedi, nel silenzio della sorpresa,
per sussurrarci all’orecchio che è già tra noi e che non ama il clamore vuoto
dei tamburini mediatici che non sanno sfidare il tempo.
Che dire? Ci si trova di fronte a uno spartito sulla
pagina oscura del tempo, il nostro, sul quale vanno letti e interpretati i
ritmi, le battute, le pause, ma soprattutto il silenzio, che segnano e indicano
i tempi dell’avventura umana sulla terra, e cioè le scansioni di una invisibile
epopea dell’uomo già contenuta nella leggerezza di un rèfrain quasi onirico, come la stessa musicalità dell’endecasillabo
a rima alternata che mantiene le medesime risonanze e sonorità di una
“cantilena” che ci giunge da percorsi carsici -da mistero ctonio-, di cui non
sempre ci è dato intuire l’origine né il luogo di attraversamento né la meta.
Tutto resta ignoto all’occhio eppure il cammino tende a svilupparsi nella
polifonia della grande metafora allegorica, nella quale si allude e si compie
il significato recondito del gesto quotidiano e storico dell’uomo, ma anche
l’antifona sapienziale che ci appartiene e che presiede a questi versi di
Guadagnino:
La forza offende il sangue
e fa precetto
graziando solamente la
paura
che brulica in anfratti e
per l’effetto
riduce questa terra a sua
misura,
ne uccide l’acqua e l’erba…e
maledetto
il cielo di quest’epoca ci
oscura.
Si alludeva alla sapienzialità, che si diffonde e
dilata su un ritmo interiore e dantesco, per toccare la nostra sensibilità e
inquietarci come la veggenza di un oracolo che provenga dalle lontananze
ermetiche del mistero. L’oracolo, la claustralità, l’oscurità! Come se uno
sguardo nascosto nelle pieghe del tempo e irrivelato, non visto da altri,
avesse facoltà di leggere i caratteri di una scrittura esistenziale che sono
poi i veri, poveri connotati di un uomo-pinocchio al quale con la pazienza di
un “grillo parlante” si ricorda la liturgia dell’errore e la quotidiana
necessità dell’avvedutezza, in vista della brevità della vita e onde evitarne
gli inganni. Ecco allora che, nella metafora dell’ “orto”, anche un “nespolo”
può sostituire l’uomo e allusivamente indicarlo entro lo spazio caduco che
dall’autunno va alla primavera:
Nell’orto che si
disfa a si abbandona
al passo dell’autunno
non hai sera
tu nespolo che
infiori la corona
dentata di solinga
primavera.
Una quartina in endecasillabi, il cui ritmo
rende bene la brevità del destino umano
proprio
nel declino dell’ ”orto” e nel passaggio autunno-primavera, e nel quale la
primavera vive la solitudine della stagione appunto solitaria e “solinga” – un
aggettivo che non nuoce, seppure obsoleto e carducciano: “la solinga
primavera”. E continua, il poeta, nella successiva quartina per accompagnare
ancora il declino dell’immagine precaria dell’ “orto” nel quale si compie il
destino di morte degli esseri:
Vegli sull’orto,
filo che trapassi
il sonno della
vita e mi rammenti
il sempreverde
vigile sui sassi
e l’insensato
pianto dei viventi.
In questo bildungsroman o romanzo della coscienza ( la coscienza che
aforisticamente parla alla coscienza ovvero la coscienza che parla a se stessa
e che spesso procede in aenigmate ),
il poeta si fa portavoce di un progetto onesto sull’uso e la trasmutazione
della parola in verbum poetico come
in un proposito o una richiesta a chissà quale deità della poesia e, per certi
versi, come un’invocazione, poiché nel rifiuto della “parola che stupisce” è
sottinteso il bisogno di una ricerca espressiva personalissima, coerente e
lontana dai rumori di tanta corrente poesia del nulla:
Non
voglio la parola che stupisce
e resta
ferma a cosa vile e vana,
ma la
parola, sì, che scaturisce
dal
silenzio ch’è cenere di brama.
La trasmutazione, cui si accennava prima,
è anche il passaggio dialettico vita-morte, nel quale si inscrive la condizione
dell’essere o dell’esistere e dell’apparire e su questa premessa il poeta
costruisce la sua opera. Dalla sua piccola-spelonca platonica, egli è uscito
allo scoperto per ricercare la verità al di là e a dispetto delle illusioni che
tendono a falsare il valore della vita:
e scava sempre
più la sua spelonca
sperando di vedere opposto il frutto.
Ma non è tutto. Questa raccolta, sommossa da
un’interna forza cinetica, da un ben determinato movimento ad quem, lascia immaginare l’avventura del “viaggio” –perché
no?- dantesco, in cui un nascosto io/tu
procede scortato dalla guida della ragione (immagine che potrebbe alludere a
un’ombra virgiliana), lungo la turbolenza di un percorso di sofferenza e di
fede nella (tras)mutazione, nella metamorfosi che può redimere o condannare:
Entra se puoi là
dove non c’è porta
ivi sciogliendo
come per distanza
il disegno
dell’ombra che ti scorta
nella spola tra il
pianto e la speranza.
“Entra
se puoi là dove non c’è porta”/(…) : quella infernale della speranza perduta o
della non speranza . Qui, i termini lessicali “porta”, “scorta”, “pianto”,
“speranza”, configurano la topografia del “luogo” attraverso cui si sviluppa il “viaggio”
di ricerca, nella fede, della poesia onesta
che nel suo cammino si affianca alle turbolenze della vita. Siamo al resoconto
assai disincantato sull'esistenza umana: vivere già equivale a soffrire, e
forse è illusione la salvezza dell’uomo.
Quanta inquietudine e quanta pena in questi
versi di Guadagnino, protesi all’ “attesa/ che
sconta già l’inutile sentenza/ fingendo la salvezza o la sorpresa”. Poco oltre questi versi, c’imbattiamo nella pregnanza di
una sinestesia di bella suggestione:
“luce sonora”. Ebbene, essa determina uno scarto dalla dimensione reale dell’essere alla dimensione ”altra” che s’identifica
nella fioritura di una stagione solare
come la primavera, che pure vive lo spazio breve del tempo avaro e menzognero,
per le disillusioni che infligge all’uomo, ingannandone le umane aspettative.
Tutta la sua poesia può essere letta come un racconto sapienziale, ininterrotto, sulla vita
dell’uomo soggetta sofferenza per le speranze tradite e gli errori che tradiscono la coscienza e la offendono. Un parlarsi
sottovoce o un leggersi la propria
autobiografia. Lo ribadisco: la coscienza che parla alla coscienza. Qui la
forza e la novità della poesia di Guadagnino, che sa fingere la voce lontana
della coscienza, che pure è la sua,
gli appartiene, allo scopo di raccontarsi le frodi della vita. Di più:
si potrebbe parlare di autobiografia in versi, giocata tra i pronomi personali
io/tu, afflitti e limitati da un diaframma che
opprime e acceca la vista ( forse
l’ “inferriata” al di là della
quale “la zolla” “rigoglia d’erbe
senza giardiniere”): una cecità tutta terragna che al di là della cortina
esistenziale intravede la luce di una condizione di salvezza: “brilla l’immensità della
marina”. Versi ariosi e profetici nei quali è racchiusa l’antifona da
decifrare e disvelare, il loro
senso, il segno e il cammino altrimenti
occultato dalle insidie dell’esistenza, dalle sue quotidiane tirannie. E’ tutta qui, infatti, la pregevolezza di questa poesia.: proprio nella
velatezza del verso che vive – e trasmette-
il fascino della enigmaticità dell’ “oracolo”, che si avvale anche di
elementi cosmici e presocratici come: “sole”, “aria”, “acqua”, “terra”, i quali
si elevano oltre le “pareti cieche”, l’ “inferriata”, la “cortina”. Insomma,
oltre l’abbaglio crudele dell’inganno
esistenziale. E insisterei sulla
“oscurità” ontologica, tra arcanità, naufragio e Assoluto, celati da
un’alchimia ermetica accostabile a talune connotazioni del poema iniziatico,
che precede in aenigmate. Qualche
volta si ha perfino l’impressione di contemplare l’immobilità della luce nel
divenire (come ricerca e gusto) della parola, allorquando essa reca in sé gli
umori dei simboli espressi dal linguaggio della meditazione. In senso
cabalistico è come se si volesse tracciare un percorso etico verso Dio o come
se si cercasse la percezione del “numinoso” nella liturgia morale dell’essere-nel-mondo
ma non per il mondo, così da rafforzare o mutare le
facoltà “buone” in forza interiore: un po’ come nel sogno degli
alchimisti è la trasmutatio della
materia, e/o materialità, nella rinascita o affermazione della spiritualità.
Guadagnino deve avere avuto, o ha, un gusto particolare per letture
cabalistiche. Lo affermo e me lo chiedo ogniqualvolta mi viene in mente il De
arte cabalistica dell’umanista tedesco (amico di Marsilio Ficino)
Johannes Reuchlin). Si badi a certe
sequenze, che contengono quadri o fotogrammi del destino dell’uomo che da
sempre soggiace a quelle frodi esistenziali
di cui si dava cenno prima, al “…filo di tristezza che rischiara/la rosa
del tuo nulla e la tua vita.”. Una “tristezza che rischiara” può essere, alla
fine, intesa come una presa di
coscienza della pochezza dell’uomo
e della strada attraverso cui questa
pochezza può condurre. O è, la tristezza, una dichiarazione e accusa del Nihil camuffato nella bellezza quasi
eterea della rosa e nella sua durata
breve. Certo, è questo procedere nel labirinto
dell’ambiguità che accresce e
arricchisce il fascino dei versi del poeta di Canicattì (cittadino dell’area geografica e antropologica
siciliana, a dimensione sciasciana, nel senso della sua poetica civile!),
inconfondibili e assolutamente
lontani dal maremagnum dell’omologazione versaiola di tanta trionfante
non-poesia!
La scena illusoria della fantasmagoria dei
colori e della luce (vi ritorneremo più in là) finisce a nascondere il dolore
dell’uomo chiuso alla luce vera del pensiero ovvero alla tensione metafisica:
La chiarità di
luce e di colori
che vibra nella
danza delle forme
è la stessa
ghirlanda di dolori
che si cinge lo
spirito e dorme.
E’ costante, ci pare, il soccorso di una voce
virgiliana che si estende a tutto il poemetto e che ilo lettore avverte
nell’atto di attraversare gli spazi o luoghi dell’io/tu per ricercare un limbo
di verità come approdo finale. Un luogo
“altro”, allora, dove finalmente la
voce può tacere, contemplando la luce
della verità o rivelazione: “ invano cerco libero riposo/ in una trascendenza
senza peso”: La ricchezza del lessema “luce” e degli equivalenti sinonimici
come “chiarità”, “spiraglio”, “alba”, “aurora”, “sole”, “illuminare”; e poi gli
opposti: “oscurare”, “ombra”, “anfratti”, “tenebra”; sono altrettante chiavi semantiche che
rivelano la tensione di ricerca di una dimensione interiore e spirituale
salvifica e nella quale viene esaltato il ruolo della scrittura che riconduce a
questa, assiduamente ricercata, dimensione:
Tu, canto he
la strada fai pulita
dall’ombra
delle immagini che vanno,
nell’insonne crogiuolo della vita
difendi il
mio dolore dall’inganno.
C’è,
in tutto il libro, un dubbio strisciante,
il senso occulto e occultato di un pessimismo che
macera e , all’opposto, il
deterrente salvifico: “difendi il mio dolore dall’inganno”. Tale pessimismo
diviene concreto nell’attimo di tristezza e/o sofferenza dell’uomo e del poeta
che tenta, nel miserabile ed estremo sforzo umano, il cammino incerto della speranza
lontana. Il “reticolo degli
inganni” è anche un labirinto del tempo
nel quale ci si smarrisce, e il cui percorso, incerto e dubbioso, è
disseminato di schegge-errori e di ogni
altra trappola esistenziale. Siamo di fronte a un lavoro minuzioso,
meditato, vissuto, sofferto e sempre attentamente eseguito nella ricca e
complessa fucina dell’allegoria, che regge tutta quanta l’invenzione creativa del poeta intorno al proprio “racconto”, in cui può celare la sua stessa biografia, che è anche biografia altrui, essendo l’io soggettivo in
continuo movimento e spostandosi e trasferendosi nella metafora io-umanità-mondo. Si legga anche in
questo senso la simbologia della “spiga” che si risolve nel rapporto
analogico spiga-uomo. Ascoltiamo il
poeta nelle due quartine che seguono:
La spiga tra la messe
pare viva
mentre protesa al sole
si matura
entrando così docile e
non schiva
nell’ora in cui verrà
la mietitura.
Io vado nella luce
che la svezza
e come col suo lume fa
la luna
imparo dal suo volto
la saggezza
che vede agire nuda la
fortuna.
Un cammino aspro e tortuoso (dantesco),
scandito un’ansia di pena cui fa seguito
un bisogno di contrirsi e di riparare
alla colpa del proprio io-diviso, che si ostina nella ambiguità e ambivalenza di “gesti” comportamentali però rifiutati dall’uomo
Guadagnino e, in senso lato, si pensa, dall’uomo:
Al prodigo s’alterna in
me l’avaro
e sfuggono al volere tali
giri,
più cerco in me da me
giusto riparo
più spendo in vani giorni
i miei respiri.
Lo scenario
si amplia nel “racconto” allegorico(mai viene meno quella sorta di sensibilità
esopica che riesce a imprimere ai versi
talor auna intonazione
fiabistico-sapienziale) di Scalo
ferroviario, luogo di riflessione sulla sorte del poeta e dell’uomo alle
prese con l’attesa del viaggio, nel
microcosmo tipologico di una stazione ferroviaria nel quale si incrociano le
strade sconosciute del mondo, ma anche le strade dell’io privato o del
microcosmo individuale:
Ed io, che non sono mai
partito
per avere mancato ogni partenza,
da quella sala
pure sono uscito
e felice ne vivo
l’esperienza.
Tutto questo, ovviamente, appartiene alle
considerazioni sui consuntivi fallimentari intorno all’epoca dei sogni di una
generazione “con le suole di vento e i
pugni intasca”, che si smarrì dietro a miti
chisciotteschi di gioventù:
Eroici viaggi
col sacco a pelo
seguivano
fedeli lo stradario
compreso trai confini di quel cielo
che pare terra
ed è l’immaginario.
(Età fuggiasca)
Altre volte, come ne Il luogo karmico, è affidato al respiro di un monologo il susseguirsi
di domande e risposte, osservazioni e pensieri che si intrecciano e fondono nella
meditazione pensosa e dolente dell’esistenza. Ed è una meditazione che conduce
alla figura di Adamo, interposta persona attraverso cui il poeta parla all’uomo
e di sé: quasi per una sorta di “trasversalità”
che gli consente di oggettivarsi nel mito del primo uomo e accogliere su di
sé gli errori del mondo. Adamo, qui, è
l’Incipit di una personale “Genesi”
del poeta, nella quale tra l’altro è contemplabile la pena esistenziale che
colpirebbe, secondo quel mito, la nostra specie e dove: “Nel commino che inizia dalla creta/ l’ostacolo si maschera di
meta.” Ora, è proprio in questo
“cammino” che ci s’incontra con l’enigma del Tempo nel quale si assiste al contrapporsi dei
personali io/tu, che determinano la dialettica temporale ovvero lo scorrere del
Tempo, si capisce anche come inganno quotidiano altrimenti superabile nel
concetto morale di libertà, che è la
necessaria e salvifica eticità della
vita.
Questo nostro poeta potremmo definirlo, ungarettianamente, uomo di
pena: sembra infatti aver conosciuto tutto della vita, grazie forse all’occhio
di quella specola di cui s’è detto e dalla quale – anche da “penalista” e uomo
di legge – può osservare, guardare dentro alla creatura umana, accrescendo il suo disincanto verso la vita
amata-odiata, ma sempre finemente
osservata, proprio dalle lenti del suo
mal-di-esistenza, come un luogo di inganni, che se fa sentire il fascino
delle illusioni è solo per la conferma e la celebrazione del tradimento
quotidiano. Ma leggiamo Tempo:
Nel vortice
dell’essere ch’esponi
combattuto dal
corpo che mi tiene
ricerco tra gli inganni dei
tuoi doni
la libertà
che sola mi appartiene.
Bisogna giungere a Degenza, testo tra i più intensi, incisivi e più apertamente e
dolentemente sapienziali della raccolta, per scoprire un’altra pagina
esistenziale del poeta. Intanto, va precisato che le sezioni nelle quali trova
coerente sviluppo l’opera fluiscono
l’una nell’altra e trovano compenetrazione nel sentimento del poeta per la vita
ma anche nel sentimento che il poeta ha
di sé. E’ da qui che l’opera trae forza di sviluppo, approfondimento e
arricchimento della propria poetica come anche del pensiero poetico dell’autore.
Assistiamo, infatti, dopo tante illusioni, a una dichiarazione di fede
ricercata, a dispetto degli
interrogativi che danno ambiguità
ai versi di Degenza, che suonano come
preghiera dubbiosa e insieme
sconfortantemente ossimorica: un laico , Guadagnino, alla ricerca di una fede, però subito turbata,
nelle sue incertezze, da un atteggiamento mentale agnostico che quasi lo angustia:
La
malattia
che qui nell’ospedale
mi tiene
compagnia,
sfoltisce
l’io
per
prepararmi a Dio?
o più
semplicemente
è una
visita del niente?
E’ un testo che fa da pendant
con il seguente epigramma, ancora più esplicito e pessimistico:
Che fatica,
risalire la
china della vita
e scoprire
alla fine che la meta
era questo ritrovarsi
alieni sul
pianeta.
Eppure
il poeta, quando descrive la natura ,concepisce versi intingendo la sua penna nella policromia di una tavolozza che
celebra il tripudio della terra, come a volerne cancellare la terrestrità e
ogni peso e, per contro, allietare l’uomo proiettato in dimensioni “altre”,
dimentico dell’affanno legato alla macchia d’origine. Gli “azzurri” di
Guadagnino sono i colori che danno “corpo” alla metafisica che, non da ora, lo intriga. Così nelle due terzine del
sonetto Autunno:
E dentro
quest’azzurro così terso
che l’intima
visione fa più vera
tu vedi le tue
pene andare verso
il corpo stanco e l’anima leggera
dell’uomo
silenzioso che ha disperso
il bene e il
male a guadagnar la sera.
Un ritorno allo stesso motivo, ma più
insistito e profondo e ricco è nelle quartine di Girona, in cui il poeta dissemina “tracce” metafisiche attraverso
colori come “azzurro”, “giallo”, “verde”, “grigio”; e poi la luce e i silenzi e
i suoni: un dispiegarsi di dati visivi e uditivi e di sinestesie ( “ Il canto
delle pietre”), che bene definiscono la suggestione del “luogo”: si consideri la funzione del dato
uditivo “silenzio” –per assenza o per
difetto - , che abbonda nei suoi testi. Ebbene, è come se il poeta in
questo ”silenzio” – interiore e spirituale- volesse auscultarsi o ascoltare nel
suo linguaggio, come qui, ne “I vicoli che
stringono l’azzurro”, la verità racchiusa nel “geroglifico” del “canto
delle pietre”, ovvero delle “figure
fantastiche” – lui stesso ce ne avverte in nota- “scolpite sui capitelli del
chiostro della cattedrale di Gerona”. Sì, geroglifico messaggio misterioso e
intellegibile, che racchiude il segreto metafisico che da sempre inquieta:
Qui senti più che viva
sotto il velo
dipinto delle forme la
ricerca
del luogo di una gnosi in cui vanisca
la pena che in segreto
ti cesella.
Ecco, il cruccio e la pena che ci scavano
dentro: una sorta di damnatio a cui ci condanna la terrestrità. Tutto questo,
in ben altro modulo espressivo, è già presente a indicare l’ insistenza martellante del cruccio, nel breve testo Degenza, dove la “malattia” potrebbe metaforicamente
rappresentare il malessere esistenziale del poeta, combattuto tra agnosticismo
e gnosi.
Questi di Diego Guadagnino sono versi che grondano terra e fango, ma per elevarsi a
dimensione dello spirito, così da
celebrare la forza della spiritualità
dell’essere umano. Poesia di grande levità,
sommessa e toccante pur nel peso di
tanta zavorra esistenziale che la costringe al destino della terra. Così in
Centuria:
Giuoco di sillabe che muore
nella segreta
trasparenza
dell’ultimo suo
senso.
Noi continueremo ad
auscultare la nostra coscienza nei
battiti vivi di questi versi, sintonici con l’enigma “dell’ultimo suo senso”,
ma anche con tutta quanta l’alta poesia di Diego. Questa e quella che verrà.
Punta
Braccetto/Ragusa, agosto-settembre 2007
Giovanni Occhipinti
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