lunedì 12 marzo 2018

DIEGO GUADAGNINO, Dai decollati a Beccaria

Le Muse
Rivista periodica dell'Associazione Culturale "Le Muse" di Ispica
Anno V n. 2
Dicembre 2017








Nella sua Storia della morte in Occidente Philippe Ariès fa una distinzione quanto mai proficua nell’ottica di una comprensione sociologica  del fenomeno. Alla “morte addomesticata” del passato, contrappone la “morte selvaggia” della contemporaneità, alludendo al fatto che la morte, dopo essere stata, dal Medioevo a tutto l’Ottocento, oggetto di costante considerazione, oggi viene ignorata ed esclusa dai contenuti della cultura dominante. Nelle società del passato, grazie all’egemonia della Chiesa cattolica, l’esperienza del trapasso era oggetto di una elaborazione culturale socialmente condivisa che la inscriveva in una coerente rappresentazione dell’universo sia individuale e sia collettivo. E’ chiaro che la pena capitale in un simile contesto assumesse connotati antropologici completamente diversi che nell’attuale società. Non c’è errore più grande che giudicare un’epoca con i parametri di un’altra.  Eppure è quello che frequentemente avviene, soprattutto quando si parla della pena di morte, a causa della difficoltà psicologica a spogliarsi di un costume mentale divenuto parte fondante del nostro esserci.
       Nel 1758, quattro anni prima che Beccaria pubblicasse il suo fortunato libriccino, usciva a Napoli l’Apparecchio alla morte, una serie di riflessioni con cui l’autore, sant’Alfonso dei Liguori, fa un efficace uso apostolico della morte per indurre al pentimento i peccatori. I temi sono quelli che riempiono i manuali di ascetica, ma l’opera ebbe una diffusione straordinaria, se ne stamparono quindici edizioni vivo l’autore. Sono pagine da cui emerge la predominanza assoluta, oggi diremmo ossessiva, dell’idea della morte nella cultura cattolica, per la quale questa vita è solo un fugace episodio che ha valore in funzione del giudizio finale, vero momento decisivo e qualificante per la salvezza o la dannazione eterna.
      Anche san Tommaso d’Aquino, nel suo concetto di “pena”, aveva dato preminenza al bene spirituale su quello materiale, attribuendole duplice valenza: retributiva, operante sul piano temporale, che significa ristabilire l’ordine violato, e medicinale, operante sul piano invisibile, che equivale alla guarigione spirituale del condannato. Una medicina “non cura mai il bene maggiore per procurane uno minore”, sostiene il Dottore Angelico; e il criterio comparativo vale anche per la pena capitale, che togliendo il più grande bene terreno, purifica chi la subisce e gli permette di accedere all’eterna beatitudine; effetto che, sempre secondo l’Aquinate, non si produce quando invece si muore per cause naturali. Sulla base di tale principio, l’esecuzione di una condanna capitale era preceduta dall’attivismo delle Confraternite o Compagnie, denominate della Buona Morte, della Misericordia, di Maria SS., di san Giuseppe ecc. e che avevano il compito istituzionale di preparare il condannato a ricevere il supplizio nelle migliori condizioni di spirito per averne il massimo beneficio.   
    La morte inflitta come espiazione aveva il potere soprannaturale di trasmutare in santo un malfattore, per cui spesso, in presenza di un sincero pentimento coniugato alla speranza di salvezza, era egli stesso a reclamarne l’applicazione. Questa convinzione favorì il nascere del culto per le anime dei corpi decollati, diffusosi tra il popolo che assisteva all’esecuzione come a un sacro mistero. Nei pressi dei luoghi del supplizio o della sepoltura dei condannati cominciarono a sorgere cappelle e chiesette dove a volte venivano esposte in reliquari le ossa dei giustiziati, offerte alla devozione di quanti vi si recavano in pellegrinaggio. A Canicattì, come in tante altre città della Sicilia, esiste una Cappella detta dell’ “Armi di li corpi dicullati” (anime dei corpi decollati), alla cui parete sopra l’altarino è appeso un dipinto dove si vedono anime antropomorfe in posa di preghiera tra lingue di fuoco purgatoriali. Fino agli anni Sessanta del secolo scorso era possibile assistere ancora, di lunedì, a un via-vai di donne che facevano “il viaggio” per grazia ricevuta portandovi ceri e fiori.
     Un personaggio che nonostante l’indiscutibile importanza della sua funzione veniva percepito come figura sinistra e inquietante da tenere a distanza, era il carnefice. Il suo era un mestiere socialmente emarginante e perfino in chiesa, non solo a lui ma a tutta la sua famiglia, veniva riservato tra i banchi un posto separato dal resto dei fedeli. Joseph de Maistre, nelle Serate di San Pietroburgo, non avrebbe inserito la famosa apologia del boia se non ci fosse stato questo, sebbene pacificamente accettato, trattamento discriminatorio nei suoi confronti. “Chi è dunque” scrive l’ideologo della Restaurazione “questo essere inspiegabile che a tutti i mestieri piacevoli, redditizi, onesti e anche onorevoli che si presentano in gran numero alla forza e all’abilità umana ha preferito quello di tormentare e uccidere i propri simili? (…) egli è fatto come noi esteriormente; è nato come noi; ma è un essere straordinario, e affinché egli esista nella famiglia umana è necessario un decreto specifico, un fiat della potenza creatrice: egli è creato come un mondo. (...) Appena l’autorità gli ha fissato una dimora, appena egli ne ha preso possesso, le altre abitazioni arretrano fino al punto da cui non vedranno più la sua. In mezzo alla solitudine e al vuoto che gli si è creato intorno, egli vive solo, con la sua famiglia e i suoi bambini… (…) E’ un uomo? Sì: Dio lo accoglie nei suoi templi e gli permette di pregare.” Mosso da analogo sentimento, anche Balzac, nel 1830, pubblica un racconto che illumina i tratti caritatevoli e devoti di un misterioso personaggio dietro cui si adombra Charles Henri Sanson, il boia che prestò servizio a Parigi prima e durante la Rivoluzione.  
     De Maistre non tenta una riabilitazione del boia mirata a sciogliere la barriera invisibile che lo isola dai suoi simili, fa di più: ne esalta la solitudine quasi fosse un attributo della sua autorità di diretto mandatario di Dio. “Nessun elogio morale” dice “gli si può tributare, perché ogni elogio morale presuppone un rapporto con gli uomini, mentre egli non ne ha alcuno. E tuttavia ogni grandezza, ogni sudditanza si basano sul boia: egli costituisce l’orrore e il legame dell’associazione umana.” Per De Maistre “l’intera razza umana è mantenuta in ordine dal castigo”.
     Agli antipodi di questa concezione intimidatoria si pone il Contratto sociale di Rousseau,  che ravvisa invece nel consenso democratico l’elemento coesivo della consociazione umana. La filosofia politica del ginevrino è quella che viene accolta da Beccaria nella sua opera più famosa.
     Dei delitti e delle pene, apparso anonimo, senza data e non suddiviso in capitoli, a Livorno nel luglio 1764, viene messo all’indice dalla Chiesa nel 1766. Ed è intuibile perché. L’autore, sulle orme di Grozio, che aveva separato la giustizia umana da quella divina, scinde i concetti di reato e di peccato; riduce la morte a semplice dato clinico senza più nessuna cornice rituale e trascendente. Sul “memento mori”, così caro all’ascetismo cattolico, prevale lo spinoziano “non mortis sed vitae meditatio”, per il quale l’uomo saggio a tutto pensa tranne cha alla morte. In effetti Razionalismo e Illuminismo segnano l’avvio di un percorso antropologico che porterà all’odierna rimozione dell’evento tanatico fino a farne un fatto disdicevole e vergognoso, e quindi favorendo l’affermarsi della morte socialmente e culturalmente deregolamentata.  
     Con Beccaria tutta l’elaborazione culturale prodotta dal cattolicesimo intorno all’idea del morire viene improvvisamente a cadere, non esiste più. Egli non spende un solo pensiero per contestarla, non accetta il contraddittorio sul punto. Le sue idee non si pongono in evoluzione rispetto alla dottrina della Chiesa, ma nascono e vivono in ben altro universo parallelo e non comunicante. La giustizia penale trova fondamento nel bene comune e nell’interesse generale appalesando in pieno la sua ratio pragmatica e utilitaria. La pena di morte, a cui dedica il capitolo XXVIII, viene da lui trattata nei termini e nell’ambito non più della teologia ma del contrattualismo rousseauiano, facendo venir meno ogni finalismo etico collegato al concetto di purificazione spirituale.
     Per prima cosa egli si chiede se la pena di morte sia un diritto. No, risponde, non è un diritto. Perché le leggi, che sono un fatto umano e terreno, nascono dal consenso sociale in forza del quale l’interesse del singolo riceve legittimazione in quanto coincidente con l’interesse di tutti. Se le leggi sono la somma delle volontà di ciascuno dei consociati, bisogna convenire che nessun individuo è disposto a “lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo”. La pena di morte allora “è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere.” Ne consegue che “la morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione recupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia quando i disordini stessi tengon luogo di leggi.”  Questa ammissione politicizzata dell’omicidio come pena, ha spesso indotto gli esegeti di Beccaria a ritenere una sua non totale e incondizionata avversione all’istituto e a considerare la sua teoria un rimedio limitato a temperarne gli eccessi.
     La storia dal canto suo ha dimostrato che questa parziale giustificazione si è più volte rivelata la porta dell’eccesso. L’ossessione di sterminio che ha dominato le degenerazioni rivoluzionarie da Robespierre a Stalin hanno avuto una motivazione non diversa da quella enunciata dal filosofo milanese. Quando l’Assemblea Costituente della Rivoluzione francese si trovò a discutere se cancellare la pena di morte dal codice penale o mantenerla, per uno di quei paradossi che la storia non si risparmia, fu proprio Robespierre a pronunciare un discorso appassionato per chiederne l’abolizione più totale, (“Io vengo a pregare non gli dei ma i legislatori di cancellare dal codice dei Francesi le leggi di sangue che comandano i delitti giuridici, e che vanno contro le loro nuove abitudini e la loro nuova costituzione”) ma venne messo in minoranza e passò la decisione di non abrogarla. Un anno e mezzo dopo un tribunale la infliggeva a Luigi XVI con una sentenza che poteva essere motivata citando alla lettera Cesare Beccaria: “La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione…” Nel caso del re di Francia sussisteva il pericolo che egli sollecitasse le monarchie europee a intervenire contro la Rivoluzione; le sue “relazioni” e la sua “potenza” si fecero cagione della sua condanna. Da lì a qualche mese si sarebbe scatenato il Terrore con le migliaia di decapitazioni ritenute “necessarie” per la salvaguardia dei principi costituzionali. Ugualmente le sentenze capitali dello stalinismo si abbattevano invariabilmente sui cosiddetti nemici della rivoluzione socialista.
     Occorre tuttavia precisare che sul piano formale, l’eccezione riconosciuta da Beccaria, non incrina la sua teoria abolizionista, e ciò in virtù della distinzione tra diritto e atto di guerra. Affermando che la pena di morte non è un diritto, la rende illegittima, le conferisce una veste giuridicamente inconciliabile con la società civile. (Anche la nostra Costituzione in origine all’art.27, ultimo comma, disponeva che “Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.” Comma che, dopo la soppressione di tale pena anche dai codici militari, avvenuta nel 1994, nel 2007 è stato ridotto alla sola disposizione “Non è ammessa la pena di morte”.)
    Ma l’attenzione del filosofo illuminista è rivolta principalmente alla critica dell’istituto all’interno di uno Stato in tempi di normale funzionamento (“durante il tranquillo regno delle leggi”). Non è l’intensità di una pena, egli dice, a garantirne l’efficacia intimidativa, ma l’estensione, la durata. La morte ha il massimo dell’intensità come supplizio, ma dura pochissimo nel tempo, contrariamente alla schiavitù perpetua che riduce il condannato a “lunga e misera condizione.” Nell’intuibile calcolo che può fare un ladro o un assassino davanti al progetto delittuoso, la religione addirittura lo soccorre apparecchiandogli la felicità eterna in cambio di una resipiscenza maturata in extremis, elidendo o diminuendo così l’orrore pedagogico del patibolo. Mentre la prospettiva di trascorrere molti anni o l’intera vita “nella schiavitù e nel dolore” lo porta a fare un confronto (ovviamente con l’esito di desistere) con l’incerta felicità che può ricavare dai suoi delitti.
     C’è da dire che non sempre le considerazioni psicologiche di Beccaria sono state riscontrate in positivo dalla casistica criminologica. E’ stato per es. appurato che esiste un fattore-imprevidenza (cioè assenza di ragionamento sulle conseguenze afflittive del proprio gesto) che caratterizza la condotta dell’individuo nel momento in cui si determina al reato. Ciò che invece risulta ampiamente ed empiricamente dimostrato è la mancanza di efficacia dissuasiva della pena capitale.  Si sono dati casi di carnefici che si sono macchiati di delitti puniti con la pena tante volte da loro stessi applicata come regolare attività di lavoro. Sempre attingendo dalla letteratura criminologica, non manca neanche l’esempio di chi, graziato dopo la condanna a morte, sia ritornato a commettere reati puniti con la stessa pena, per cui è stato osservato che la pena di morte non emenda neanche quelli che l’hanno subita. La realtà è che la mente criminale spesso è imprevedibile perché non ubbidisce agli schematismi logici del nostro pensiero. Un esempio paradossale, che in un unico contesto conferma due volte la tesi di Beccaria, è quello di condannati alla reclusione che non tollerando la privazione della libertà uccidono al solo scopo di ottenere la condanna a morte come liberazione.
     Ma dove Beccaria risulta più prossimo al sentire moderno è quando passa ad esaminare gli aspetti antropologici della pena di morte, dimostrando una sensibilità rivoluzionaria per la sua epoca. I suoi argomenti sono quelli che ancora oggi vengono spesi nelle battaglie civili per chiederne l’abolizione.

     Non è utile la pena di morte, egli scrive, per l’esempio di atrocità cha dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbero aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare o cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.

   Dopo averne rilevato la illegittimità giuridica, evidenzia la incompatibilità antropologica dell’omicidio giudiziario con una società sana. Non è ammissibile che una società civile codifichi norme e organizzi tribunali per uccidere frigido pacatoque animo un cittadino; e, per additare la ripugnanza che suscita naturalmente l’omicidio (dimostrandosi ancora una volta seguace di Rousseau), evoca anche lui la sinistra figura del boia, ma con fini opposti a quelli di De Maistre. “Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti di indignazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà…”
     I due secoli e mezzo decorsi dalla data di pubblicazione di Dei delitti e delle pene hanno contribuito a radicare sempre più nel terreno della ragione la teoria abolizionista propugnata nelle sue pagine, e ciò grazie alla progressiva scomparsa dell’idea della morte dai contesti culturali di massa in cui si è attuato il passaggio dalla morte “addomesticata” alla morte “selvaggia” di cui parla Ariès. Nei secoli passati la pena di morte era “umanizzata” attraverso una cultura religiosa che nell’immaginario collettivo le conferiva gli effetti di un lavacro lustrale, per cui l’anima del giustiziato ne usciva pulita e alleggerita, riconciliandone la memoria alla comunità che egli aveva offeso e turbato col delitto. Nella società odierna, orfana di tale confortante mitologia, la pena di morte è puro, istintivo atto di vendetta, insensato per chi lo commina e privo di carità (in quanto tutto toglie senza nulla dare) per chi lo subisce. Quello vendicativo è l’aspetto più riprovevole dell’omicidio di Stato, ma anche, duole ammetterlo, il più sentito dal pubblico. Nella Relazione del Re sul codice penale del 1930, con cui veniva reintrodotta nel nostro sistema sanzionatorio la pena capitale, soppressa dal precedente codice Zanardelli, si legge che essa “placa meglio il sentimento offeso dei parenti, degli amici della vittima, e soddisfa più completamente l’opinione pubblica indignata.” È uno di quei casi in cui l’istituzione, che ha il compito di filtrare e disciplinare le espressioni istintive, emotive, passionali dell’individuo, rinunciando a tale funzione, sceglie di attuarle incanalandole nella legislazione. Un’aberrazione giuridica decisamente inaccettabile per la nostra coscienza.

Diego Guadagnino








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