Con Il fabbro e le formiche (Edizioni Controluce, 2011) lo scrittore canicattinese Diego Guadagnino si cimenta, dopo la silloge poetica Trasmutazione e il romanzo La via breve,
con il saggio storico-biografico, dimostrandosi così uno scrittore
poliedrico, oltre che di notevole finezza letteraria e profondità di
pensiero come attestano i suoi critici (Alvarez Garcia, Guastella,
Mandarà, Occhipinti, Schembari, Tesio, Turco e tanti altri).
Chi è «questo “Domenico Cigna”» verso cui Guadagnino avverte in coscienza «un dovere: quello di non scordarlo»?
1. Domenico Salvatore Cigna nasce il 28 luglio 1878, a Canicattì, in una famiglia di ideali democratico-risorgimentali.
Negli
anni universitari, «preso dal sacro fuoco del socialismo», entra
nell’agone politico, iniziando un percorso che dal socialismo
intransigente lo porterà, nel primo dopoguerra, al socialismo riformista
di Turati. Nel 1901, con la fondazione del settimanale "La Folgore
Socialista" inaugura un’attività giornalistica che continuerà con la
fondazione di altre due testate: "Il Ranocchio" e "Le Spiche".
Laureatosi in giurisprudenza nel 1902, egli intraprende, non senza
difficoltà economiche, la carriera di avvocato, che sarà brillante per
le sue riconosciute qualità di «retore», «sapiente» e «attore
drammatico» emerse in famosi processi che lo videro protagonista. Nel
1910 sposa la ricca Caterina Altieri, la quale «mitiga il suo fervore
socialista». Notevole il suo impegno di studioso di diritto penale
riflesso in saggi apparsi su riviste specialistiche e in più impegnative
pubblicazioni editoriali, prodotte tutte nel decennio compreso fra il
1911 e il 1921. Nel biennio 1919-20 è tra i fondatori delle Camere del
Lavoro di Agrigento e Canicattì. Nel 1921 viene eletto deputato al
Parlamento del Regno, della cui carica «si compiace» la moglie. Fra la
fine del 1922 e quella del 1924 è fra gli oppositori dell’escalation
fascista che culminerà nella dittatura.
Fra il 1925 e il 1943, il fascismo «mitiga» ulteriormente il suo socialismo e, seppur «SOCIALISTA SCHEDATO DIFFIDATO POLITICO PERICOLOSO»,
gli consente di svolgere la professione di avvocato e di costruire un
albergo di lusso in società col cognato. Scrive due pagine di elogio
della politica fascista, tuttavia, alla luce delle carte di polizia
analizzate da Guadagnino, è da escludere «con certezza» che egli «possa
aver nutrito anche semplice e lontana simpatia per il fascismo».
Nel
1943 passa al «socialismo separatista» e infine al socialismo tout
court. Muore nel 1946, emarginato da quella sinistra che non gli perdonò
l’apologia del fascismo.
Un uomo
tanto brillante culturalmente e professionalmente, motivato dagli
ideali del Socialismo portati avanti con coerenza e rischio costanti, e
con una vita così movimentata e intensamente vissuta, dovrebbe avere un
saldo equilibrio interiore. E invece no. Tutt’altro!
Con
la fine delle libertà democratico-liberali imposta dal fascismo,
termina una fase fondamentale del suo percorso esistenziale,
caratterizzato fin’ora da soddisfazioni personali, politiche e culturali
invidiabili per i più. La vita di regime (la dittatura gli risparmia la
condanna al carcere ma è spesso intollerante nei suoi confronti) non
gli consente più di vivere quell’esistenza politicamente piena e
dinamica antecedente alla dittatura e ciò, unitamente ad alcune
caratteristiche del suo temperamento, ben individuate e messe in risalto
da Guadagnino, lo condannano a una lacerante nevrastenia che lo porta
fino all’«ansia estatica del suicidio» e dalla quale cerca una vana fuga
nel tardo spirito futurista di esaltazione dello «sterzo in mano»
(«nell’automobilismo è la salvezza» scrive), che ci appare una decadente
consolazione e una misera compensazione per la mancanza di quel
movimento politico e sindacale e di quel fervido attivismo intellettuale
che aveva caratterizzato la parte centrale e più consistente della sua
esistenza. Avendo perso ormai la speranza della lotta per una società
socialista, si augura «un pollo in pentola e un’automobile in garage»
per ogni famiglia. Peccato che il fascismo non offrì né l’uno né
l’altro, almeno alle famiglie proletarie.
2. Guadagnino
attribuisce a Cigna le caratteristiche fisiognomiche di «Marte fluorico»
(«essere istintivo dotato di un’intelligenza che si sviluppa più con la
lotta che con la riflessione») e di «ritrattato laterale» (passionale e
progressista), due tipologie rilevate rispettivamente da Vannier e da
Corman.
E il Cigna, «Marte
fluorico», ricorre «all’archetipo del fabbro» per esprimere
letterariamente «la sua visione dell’uomo nella storia». La metafora del
fabbro, rappresentante plasticamente la filosofia materialistica della
storia di Marx, e quella delle formiche, rappresentante l’evoluzionismo
darwiniano (nella «affannosa agitazione» delle formiche, egli «vede il
tumulto della vita, che tormenta senza tregua l’individuo affinché la
specie sopravviva»), sono nella loro poeticità il fondamento della sua
tormenta, oscillante e non definitiva visione del mondo.
L’autore arriva a queste conclusioni attraverso lo studio attento delle due opere autobiografiche di Cigna, In automobile del 1928 e Così la vita del 1935 (entrambe, ritorna utile rilevare, del periodo fascista), le quali fotografano un’anima inquieta perché scissa. Il protagonista appare al suo autore «frantumato e colonizzato dalle contraddizioni», contraddizioni che rimarranno senza quel superamento dialettico implicito nella filosofia di Marx. È un’anima che «si dibatte tra il nulla e il tutto», assillato perennemente dalla nevrastenia; e, si chiede retoricamente l’autore, «cosa è la nevrastenia se non la sponda patologica dell’umana esperienza del nulla?» Cigna paga amaramente il suo vuoto esistenziale (il nulla lo consacra - per usare le sue stesse parole - a «martire della nevrastenia») perché, come scrive Guadagnino in Trasmutazione, «nessuno / sfugge al niente / impunemente».
Guadagnino spiega questa angosciante condizione esistenziale ricorrendo alla «sindrome di Camerana». Il giudice Camerana si toglie la vita perché non «è riuscito a comporre dentro di sé il dissidio tra le due nature di poeta e di uomo di legge». È il dissidio di un «magistrato-poeta»: «Ma chi potrebbe ancora fidarsi di lui? Di un uomo nervoso, fantastico, perduto continuamente dietro ai suoi sogni? è nato poeta? Sappia tenersi per sé la poesia» dice Giovanni Camerana per giustificare il rifiuto di pubblicare le sue poesie scapigliate. Un dissidio che per «paradigma» è quello dell’avvocato-poeta Cigna. Ed è ancora un dissidio dell’autore, anche lui avvocato-poeta, che intravediamo in questi suoi versi: «Nel disegno di Dio / chi mai sarà quell’io / che vedo nello specchio di natura / diviso tra il parnaso e la pretura?».
L’autore arriva a queste conclusioni attraverso lo studio attento delle due opere autobiografiche di Cigna, In automobile del 1928 e Così la vita del 1935 (entrambe, ritorna utile rilevare, del periodo fascista), le quali fotografano un’anima inquieta perché scissa. Il protagonista appare al suo autore «frantumato e colonizzato dalle contraddizioni», contraddizioni che rimarranno senza quel superamento dialettico implicito nella filosofia di Marx. È un’anima che «si dibatte tra il nulla e il tutto», assillato perennemente dalla nevrastenia; e, si chiede retoricamente l’autore, «cosa è la nevrastenia se non la sponda patologica dell’umana esperienza del nulla?» Cigna paga amaramente il suo vuoto esistenziale (il nulla lo consacra - per usare le sue stesse parole - a «martire della nevrastenia») perché, come scrive Guadagnino in Trasmutazione, «nessuno / sfugge al niente / impunemente».
Guadagnino spiega questa angosciante condizione esistenziale ricorrendo alla «sindrome di Camerana». Il giudice Camerana si toglie la vita perché non «è riuscito a comporre dentro di sé il dissidio tra le due nature di poeta e di uomo di legge». È il dissidio di un «magistrato-poeta»: «Ma chi potrebbe ancora fidarsi di lui? Di un uomo nervoso, fantastico, perduto continuamente dietro ai suoi sogni? è nato poeta? Sappia tenersi per sé la poesia» dice Giovanni Camerana per giustificare il rifiuto di pubblicare le sue poesie scapigliate. Un dissidio che per «paradigma» è quello dell’avvocato-poeta Cigna. Ed è ancora un dissidio dell’autore, anche lui avvocato-poeta, che intravediamo in questi suoi versi: «Nel disegno di Dio / chi mai sarà quell’io / che vedo nello specchio di natura / diviso tra il parnaso e la pretura?».
Trova una via
d’uscita Cigna al buio esistenziale e alla conseguente nevrosi? Fragile e
impotente, tenta di aggrapparsi allo scoglio della religione che tante
volte aveva oltraggiato, quella della madre, la religione cattolica.
D’altra parte, osserva Guadagnino, «da sempre la sua struttura mentale è
stata ed è rimasta fondamentalmente cattolica».
Ma
«la conversione non l’ha beneficiato della verità che vive di silenzio,
non ha messo a tacere la sua mente, che ora si accalda a confutare gli
alleati di ieri. Questo dato caratteriale gli impedirà l’accesso al Dio
di Spinoza, che non postula, nel governo dell’universo, la
partecipazione concorrenziale di nessun demonio, e non implica alcuna
entità del male contrapposta ad altra entità del bene, mentre il
cattolicesimo, col suo connaturato manicheismo, gli è congeniale. E può
darsi anche terapeutico». «Neanche il cattolicesimo» diviene, però, per
Cigna «porto di tranquillità definitiva», rimane solo «l’ennesima tappa
di una mente inquieta che tenta di smorzare l’angoscia nell’ordine della
trascendenza». L’autore ci consegna in definitiva un personaggio
incapace di un salvifico “ancoraggio” a quell’«armonia totale della
Natura», auspicata da Guadagnino, che quindi rimane condannato für ewig
all’inquietudine.
3. Guadagnino
chiude l’analisi della personalità di Cigna con la sua poesia
“Prometeo”, che «è sempre poesia di ribellione, ma non più a Dio, non
più alla vita ma all’enimma eterno, che provoca ansia di luce,
sollecitazione di senso». Sono quest’ultime, conclude il nostro
letterato-filosofo, «le sole conquiste capaci di fondare un’esistenza in
armonia col cosmo e con se stessa». E l’«armonia» dell’uomo con il
cosmo ci conduce a Spinoza e ad Apocrifi, l’ultima fatica letteraria di Guadagnino.
Un
filosofo, Spinoza, che a Guadagnino è tanto congeniale da farne -
attraverso «citazioni numerose, ma implicite», scrive Gonzalo Alvarez
Garcia - una presenza essenziale in questa sua silloge, spinoziana fin
nel titolo. Una raccolta in cui, puntualizza lo scrittore spagnolo, «si
percepisce in lontananza il fragore del combattimento, dell’”agonia” che
l’io intimo del poeta sostiene per rimanere ancorato all’armonia totale
della Natura. “Deus sive natura” aveva affermato Benito Espinosa».
Questa
ricercata armonia dell’uomo con la natura sembra essere l’unica terapia
contro la nevrastenia; l’unico antidoto al malessere esistenziale;
l’unica fuga dal nichilismo, l’«ospite inquietante» (Galimberti) di
questo nostro tempo in cui, denuncia Guadagnino, «uno smodato desiderio
di vita facilitata ha fatto venir meno ogni tensione etica».
4. Il fabbro e le formiche
è, in conclusione, un libro su un personaggio che meritava di
incontrare un autore che gli desse una qualche forma di immortalità:
compito che Diego Guadagnino ha svolto mirabilmente, confermandosi così,
a partire da La via breve, uno scrittore
capace di far rivivere luoghi e personaggi attraverso «il sortilegio
della parola». Ed è quest’ultimo l’unica àncora dell’uomo di fronte al
nulla, la cui presenza è colta bene da Maria Attanasio nella prefazione a
La via breve: «Non è il presente, e nemmeno la morte
individuale, la prospettiva temporale da cui lo scrittore guarda le
transitorie forme di ogni storia, bensì il nulla: ferita nell’essere che
continuamente si riproduce». Una ferita che bisogna stoicamente
«accettare» (Zambrano) senza porre fra l’uomo e il nulla illusori e
pietosi veli; e curare, come si è detto, ritrovando l’armonia fra l’uomo
e Dio, che è spinozianamente natura.
5. È un libro complesso, ma di facile fruizione e godibile nella lettura, Il fabbro e le formiche,
di un canicattinese su un canicattinese; di un avvocato su un avvocato,
e di un avvocato che, come Guadagnino, avverte il peso della
professione così ben riflesso in una poesia di Trasmutazione, “La tana”. Ma l’accostamento fra autore e protagonista, come chiariremo ampiamente, si ferma qui.
Guadagnino
è uno scrittore che ha una sua peculiare Weltanschauung, come attestano
le sue non facili opere poetiche le quali, oltre ad essere specchio
della sua anima, sono un scrigno prezioso per ricostruirne il complesso
pensiero, lontano dalla persistente angoscia e dall’irrisolto nichilismo
di Cigna. Acuto esegeta del suo pensiero è Domenico Turco, prefatore de
Il fabbro e le formiche e canicattinese anche lui. Un incontro
non casuale e virtuoso quello fra i due poeti-filosofi i quali,
nonostante avessero inizialmente riferimenti politici diversi,
scoprirono, oltre un decennio fa, un’affinità di pensiero che ha il suo
centro nell’esoterismo. Domenico Turco è il filosofo del Mondo Eterno
della Tradizione esoterica e mistica alla ricerca, attraverso le vie
dell’illuminazione spirituale, di Atlantide, l’utopia perenne; un
pensiero, questo, espresso nel suo saggio “Il mondo eterno”, nel quale
trovano posto, fra l’altro, un filosofo e una tematica cari a
Guadagnino: Spinoza e il cabalismo. Nel paragrafo «Spi-noza “cabalista
atipico”» l’autore sostiene che «a ispirare» Spinoza fu «la conoscenza
profonda e vasta del Mondo della Tradizione, in quella versione
esoterica conosciuta come Cabala». E la cabala, è utile sottolinearlo,
ispira Guadagnino nella poesia “Girona” di Trasmutazione: « […]
tra le vecchie mura / i cabalisti fondono nell’Uno / la luce del creato
e la favella. // Qui senti più che viva sotto il velo / dipinto delle
forme la ricerca / del luogo di una gnosi in cui vanisca / la pena che
in segreto ti cesella»; e lo gnosticismo la poesia “Spes unica” di
Apocrifi: «Lo gnosticismo è l’ultima frontiera / varcata dal mio amico
sempre in cerca / di chiavi più adeguate per aprire / il mistero
dell’essere nel tempo. / Con l’amoroso ardore del fedele / mi fa parte
di quel convincimento / che lo porta più giovane e mi dice / “Capire che
già siamo nell’inferno / è l’unica speranza che ci resta». È un
circuito di versi di opere diverse che mette a nudo la inequivocabile
natura esoterica del suo pensiero.
Guadagnino
è un poeta e narratore il cui pensiero, dalle giovanili radici nel
marxismo (se ne possono ritrovare i segni nei suoi articoli pubblicati
su “Il punto”, la rivista fondata e diretta da Vincenzo Sena), evolve
nel tempo, scrive Turco, verso «una visione del mondo radicata sulla
polarità del sacro e del trascendente», senza abbandonare però del tutto
«l’insegnamento di Marx», ormai non più «icona politica» ma «interprete
dell’esigenza di una trasformazione del mondo e dei modi ordinari di
concepire l’esistente». Il suo pensiero affonda le radici, oltre che in
alcuni aspetti della filosofia di Spinoza, nel pensiero orientale, dal
sufismo al buddismo e al taoismo, al pensiero di Aurobindo e
all’induismo; un pensiero la cui parola chiave, assieme all’«armonia»
spinoziana, è «trasmutazione»: «Il concetto di trasmutazione diverge
sostanzialmente dalla metànoia paolina, che è il rinnovamento del
credente che abbraccia la religione e ne osserva supinamente riti e
regole. La trasmutazione secondo Diego Guadagnino è un’espressione
tecnica di quell’antica dottrina iniziatica in odor di eresia che è
l’Alchimia». La trasmutazione indica, precisa Turco, «l’affermazione
della vera vita, la vita dello spirito, a seguito del superamento della
coscienza infelice, intesa quale perdita dell’armonia originaria tra
l’umano e il divino. In altri termini, la trasmutazione segna l’avvenuto
passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, dal sogno visionario del
divenire alla realtà concreta dell’essere, e la relativa consapevolezza
del Sé autentico, il Sé spirituale».
È chiara ora la profonda distanza fra il personaggio e l’autore de Il fabbro e le formiche:
il primo nella sua ricerca di senso trova approdo nella religione
cattolica; il secondo nelle religioni e nelle filosofie orientali.
Insomma, volendo utilizzare dei modelli cari a Guadagnino, se il
personaggio è un Marte fluorico, il suo autore è un alchimista che
«trasmuta la sostanza» con «pazienza e preghiera», preghiera che
richiede, come dice in un verso che condensa la sua poetica, il
«silenzio ch’è cenere di brama». (Salvatore Vaiana).
Canicattì, 6 gennaio 2012
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