domenica 24 marzo 2013

DIEGO GUADAGNINO, Il geosurrealismo di Salvatore Fratantonio

Nella storia dell’arte occidentale il paesaggio nasce connesso con la figura umana a cui fa sfondo e supporto. E’ un canone pittorico che, sedimentato in archetipo di comportamento, vediamo agire in coloro che nelle gite turistiche non riescono a fotografare una veduta di monumento o di natura senza includervi la presenza compiacente di un familiare o di un compagno d’escursione.
Solo dall’età barocca in su il paesaggio si libera dal ruolo servile e subalterno all’epica dell’umano legittimando la sua autonomia di “genere” votato a una natura eletta a narratrice di se stessa.
Figlio della sensibilità moderna, che ne ha fatto ricettacolo e cifra di intime emozioni, il protagonismo paesaggistico con Turner prima e con gli impressionisti dopo assume la valenza di spazio espressivo dell’anima. Ed è proprio questo spazio che Salvatore Fratantonio ha sempre privilegiato nella sua carriera di pittore, sviluppandolo nelle forme di un rigore lirico che bandisce la presenza dell’uomo.
Ma in queste opere recenti, esposte nelle sale di Palazzo Grimaldi a Modica, la figura umana si è imposta al nostro Artista con reiterata prepotenza camuffata di inconscio automatismo, come se una forza estranea alla volontà cosciente avesse diretto la sua mano davanti al cavalletto. Si tratta di un processo ispirativo e di un risultato estetico che nella vicenda pittorica fratantoniana aprono una stagione inedita, alla quale, se una definizione dobbiamo dare, molto appropriata ci sembra quella di “geosurrealismo”, dal momento che dalla scuola di matrice parigina mutua due elementi basilari: l’apporto dell’inconscio e la conseguente breccia sul fantastico.
Dopo un lungo periodo di aridità creativa, vissuto con la sofferta consapevolezza che i tempi vuoti sono il prezzo di un’arte ancorata a un autentico sentire, una mattina d’autunno Fratantonio riprende i pennelli e si rimette al lavoro. Sulla tela cominciano a materializzarsi scorci dell’entroterra siciliano, di quel territorio che dalla parte orientale dell’agrigentino si estende alle province del nisseno e dell’ennese. Sono i luoghi desolati del “grano duro”, le arse vallate e i crinali rocciosi dove nella prima metà del secolo scorso i suoi genitori andavano per spighe.
Ma il racconto cromatico di tali siti non ci si presenta come una semplice variazione sui temi della campagna iblea, materia e perimetro del mondo poetico del Nostro, c’è un elemento inconsueto e dominante che viene a inserirsi nel paesaggio certificando la novità assoluta di queste ultime opere: è l’antropomorfismo della terra, sono le sagome di volti spesso indecifrabili, declinazioni surreali dell’ombra dell’Artista proiettata su territori sospesi tra la scoperta concreta della maturità e la geografia di un immaginario infantile. Con William Blake possiamo dire che queste tele sono visioni che nascono dal connubio tra innocenza ed esperienza. Perché “la collina del grano duro” Fratantonio prima di conoscerla nella realtà l’ha pensata nell’infanzia, quando i suoi genitori partendo alla volta di quelle terre lo lasciavano nella casa del quartiere Francavilla, solo anche se affidato all’attenzione dei vicini. In quelle notti di afa e di solitudine Salvatore elaborava con la fantasia eccitata dalla paura l’iconografia campestre dei modicani che spigolavano tra le stoppie lasciate dalla mietitura.
Per questo nella rivisitazione pittorica di quelle estensioni ingiallite dal solleone non poteva adesso non irrompere l’ombra dell’uomo Fratantonio con le presenze di una mitologia personale animata d’inquietudine e di mistero, come sembrerebbe dirci esplicitamente egli stesso con una tela dal titolo “Io e la mia ombra”.
La notizia sulla solitudine infantile dell’Artista illumina d’intelligenza alcuni quadri come “Terra madre”, “Ego sum”, opere dove la figura materna affiora in una rete fascinosa di simboli e di rimandi tra l’identificazione della terra del grano con la divinità (Demetra per i greci, Cerere per i latini) dispensatrice di vita e la madre reale nel vissuto del bambino Fratantonio dispensatrice di protezione e di sicurezza. Se “Madre Terra” è un omaggio al mito, “Ego sum” è il risvolto figurativo di un sentimento biografico profondo che ingigantisce l’immagine materna dentro una distanza raffigurata dall’abisso. L’opera nella sua incisiva semplicità si compone di due rupi che si fronteggiano su sfondo giallo. Ma i profili delle due masse rocciose rivelano la possente solidità femminile da una lato e dall’altro l’identità di un volto che fatica a fuoriuscire dalla materia amorfa guardando implorante verso l’altera sagoma che gli sta di fronte. Nel mezzo una distanza, fisicamente breve, metafisicamente abissale.
L’arte è un tentativo di creare o comunque di ottenere un surrogato di quell’amore materno percepito come insufficiente o mancante nell’età più fragile dell’uomo. Al di là delle teorie psicoanalitiche, a dircelo con la forza della poesia sono le pagine iniziali della Recherche proustiana sul bacio serale della buonanotte che il piccolo Marcel nel suo letto attende dalla madre. Con “La collina del grano duro” Fratantonio ha ricercato ed esplorato dentro di sé il tempo perduto e, come accade a ogni artista che si immerge in tale esperienza, si è ritrovato a interrogarsi davanti all’enigma della madre.

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