sabato 23 marzo 2013

DIEGO GUADAGNINO, L'uso omeopatico della parola

Non capita facilmente d’imbattersi in una silloge poetica come quella pubblicata qualche mese fa per i tipi dell’editrice Ismeca libri da Maria Teresa Verdirame col titolo “Sinfonie di stagioni”. L’eccezionalità che la distingue dai libri di poesia che rientrano nelle consuete aspettative del lettore è costituita dal canone espressivo adottato dall’autrice: l’haiku. Si tratta di una forma poetica importata dal Giappone, composta da tre brevi versi e di complessive diciassette sillabe. Per forma e contenuto l’haiku è legato alla cultura zen e per capirne l’intima  ragion d’essere è necessario inserirlo nel contesto che lo ha generato. La dottrina dell’illuminazione zen, che privilegia l’ “esperienza” sul “ragionamento”, ha trovato la sua espressione poetica in questa  forma compositiva che riduce al minimo le parole per consentirne la massima risonanza. A scopo esplicativo, possiamo parlare di un  uso omeopatico della parola.

    Prima dell’haiku, la tradizione scritta dello zen si basava sui koan che erano gli aneddoti relativi al gesto compiuto dal maestro per portare l’allievo all’illuminazione (poteva consistere anche in un colpo di bastone o in uno stratagemma psicologico in grado di provocare un’emozione così forte da rivelare l’essenza illusoria della mente). Ma mentre il koan era una specie di propedeutica “istruzione per l’uso” dal contenuto descrittivo, con l’haiku si vuole arrivare al cuore stesso dell’illuminazione, far coincidere l’esperienza del linguaggio con l’esperienza della realtà. Sempre a scopo esplicativo, nel nostro idioma culturale, e ricorrendo ai termini dello strutturalismo, possiamo dire che l’haiku  riduce al minimo possibile la distanza tra significato e significante, o almeno è un tentativo che si muove in quella direzione. Basho, il poeta giapponese del XVII secolo, considerato il padre dell’haiku, diceva che quando stava seduto a comporre versi tra lui il tavolo non c’era la distanza di un capello e i pensieri fluivano rapidi e vivi, ma quando si alzava, sul tavolo non restavano che cartacce. E’ un’affermazione che meglio di qualsiasi altro veicolo discorsivo riesce a esprimere l’intensità  dell’esperienza creativa (o intuitiva, o illuminante) di fronte alla quale ciò che di essa rimane, in quanto scrittura, non è che scoria.

     Immettere l’haiku nella nostra cultura ovviamente non può comportare il trapianto totale e profondo della  plurisecolare dottrina zen, ma può senz’altro accendere la freschezza della poesia restituendo alle parole la forza primigenia. Maria Teresa Verdirame, scrittrice e poetessa ragusana (anche se nata a Tripoli), con alle spalle opere di poesia (L’album dei percorsi, Memorie d’ombre, La luce e la memoria) e di narrativa (Se qualcuno busserà), si è cimentata con successo nella sfida. Il poeta Pippo di Noto, nella  succosa prefazione alla raccolta, c’informa che la Verdirame non è nuova a questo tipo di composizione essendosi già distinta  in un incontro internazionale di autori di haiku; e, peraltro, è riuscita vincitrice in alcuni concorsi specifici di haiku. Riconoscimenti meritati, senz’altro. Ma il libro cammina da solo, si presenta da sé egregiamente in tutta la sua intrigante e persistente forza attrattiva, s’inserisce con coerenza evolutiva nel percorso dell’autrice caratterizzato da una poesia che scaturisce da concretezza d’immagini e lucidità d’introspezione, due qualità che toccano il vertice in  La luce e la memoria , sua penultima silloge circoscritta al diario della elaborazione del lutto per la perdita del fratello.

      “Sinfonie di stagioni” sicuramente non è per lettori superficiali, non è un libro che si “divora”.  Ma  è un testo che produce uno strano effetto: proprio come un rimedio omeopatico agisce lentamente e con intensità crescente,  più si ritorna alle sue nitide immagini più si è presi dall’ineffabile mistero della sua poesia; le parole cadono dentro di noi come una foglia, un piccolo ramo, una minuscola bacca in uno stagno silenzioso che si anima di cerchi.

     Il segreto di tale effetto è che si tratta di una poesia che bandisce ogni accenno di ragionamento. Nei versi minimi e incisivi della Verdirame non si nasconde  un significato particolare da capire, non c’è nessuna arguzia da cogliere (da questo punto di vista l’haiku è l’esatto contrario dell’epigramma), ma vi palpita lo sguardo della coscienza che plana sugli esseri e sulle cose con una adesione fatta di empatia e di silenzio mentale. La fruizione dell’haiku, la sua esperienza estetica non ammettono richiami  letterari contenutistici, qui il critico deve deporre i suoi strumenti  eruditi, pena il mancato incontro con la vibrazione intima dell’opera.

     In virtù della cultura zen che lo ha prodotto, la peculiarità dell’haiku  è costituita dalla sua funzione, dalla sua strumentalità protesa a entrare nella realtà senza interpretarla. Non è una poesia che accresce le nostre cognizioni sull’universo, ma ce ne fa vivere la bellezza in piccoli distillati, ai quali la poetessa cede tutto lo spazio mettendo da parte anche il proprio io. Se abbiamo ben contato  sono 259  componimenti e in quasi tutti (poche le eccezioni come: chiudo negli occhi/una palma di datteri/dolce nostalgia) non interferisce nessun io a contendere la scena alle creature che vediamo scorrere  libere e vere nella loro cristallina oggettività. Protagonisti assoluti del verso ( rose di macchia/sul margine del bosco/ affreschi vivi; oppure: piccoli semi/ hanno messo radici /nelle fessure; oppure ancora: uccelli in fuga/ dall’albero atterrato/ senza pietà) alberi, fiori, animali vivono per un breve momento nella nostra attenzione, insospettabili maestri nel semplificare il mistero dell’esistere.

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