Non capita facilmente
d’imbattersi in una silloge poetica come quella pubblicata qualche mese fa per
i tipi dell’editrice Ismeca libri da
Maria Teresa Verdirame col titolo “Sinfonie di stagioni”. L’eccezionalità che
la distingue dai libri di poesia che rientrano nelle consuete aspettative del
lettore è costituita dal canone espressivo adottato dall’autrice: l’haiku. Si
tratta di una forma poetica importata dal Giappone, composta da tre brevi
versi e di complessive diciassette sillabe. Per forma e contenuto l’haiku è
legato alla cultura zen e per capirne l’intima
ragion d’essere è necessario inserirlo nel contesto che lo ha generato.
La dottrina dell’illuminazione zen, che privilegia l’ “esperienza” sul
“ragionamento”, ha trovato la sua
espressione poetica in questa forma
compositiva che riduce al minimo le parole per consentirne la massima
risonanza. A scopo esplicativo, possiamo parlare di un uso omeopatico della parola.
Prima dell’haiku, la tradizione scritta
dello zen si basava sui koan che erano gli aneddoti relativi al gesto compiuto
dal maestro per portare l’allievo all’illuminazione (poteva consistere anche in
un colpo di bastone o in uno stratagemma psicologico in grado di provocare
un’emozione così forte da rivelare l’essenza illusoria della mente). Ma mentre
il koan era una specie di propedeutica “istruzione per l’uso” dal contenuto
descrittivo, con l’haiku si vuole arrivare al cuore stesso dell’illuminazione,
far coincidere l’esperienza del linguaggio con l’esperienza della realtà.
Sempre a scopo esplicativo, nel nostro idioma culturale, e ricorrendo ai
termini dello strutturalismo, possiamo dire che l’haiku riduce al minimo possibile la distanza tra
significato e significante, o almeno è un tentativo che si muove in quella
direzione. Basho, il poeta giapponese del XVII secolo, considerato il padre
dell’haiku, diceva che quando stava seduto a comporre versi tra lui il tavolo
non c’era la distanza di un capello e i pensieri fluivano rapidi e vivi, ma
quando si alzava, sul tavolo non restavano che cartacce. E’ un’affermazione che
meglio di qualsiasi altro veicolo discorsivo riesce a esprimere
l’intensità dell’esperienza creativa (o
intuitiva, o illuminante) di fronte alla quale ciò che di essa rimane, in
quanto scrittura, non è che scoria.
Immettere l’haiku nella nostra cultura
ovviamente non può comportare il trapianto totale e profondo della plurisecolare dottrina zen, ma può senz’altro
accendere la freschezza della poesia restituendo alle parole la forza primigenia.
Maria Teresa Verdirame, scrittrice e poetessa ragusana (anche se nata a
Tripoli), con alle spalle opere di poesia (L’album
dei percorsi, Memorie d’ombre, La luce e la memoria) e di narrativa (Se
qualcuno busserà), si è cimentata con successo nella sfida. Il poeta Pippo
di Noto, nella succosa prefazione alla
raccolta, c’informa che la Verdirame non è nuova a questo tipo di composizione
essendosi già distinta in un incontro
internazionale di autori di haiku; e, peraltro, è riuscita vincitrice in alcuni
concorsi specifici di haiku. Riconoscimenti meritati, senz’altro. Ma il libro
cammina da solo, si presenta da sé egregiamente in tutta la sua intrigante e
persistente forza attrattiva, s’inserisce con coerenza evolutiva nel percorso
dell’autrice caratterizzato da una poesia che scaturisce da concretezza
d’immagini e lucidità d’introspezione, due qualità che toccano il vertice
in La
luce e la memoria , sua penultima silloge circoscritta al diario della
elaborazione del lutto per la perdita del fratello.
“Sinfonie di stagioni” sicuramente non
è per lettori superficiali, non è un
libro che si “divora”. Ma
è un testo che produce uno strano effetto: proprio come un rimedio
omeopatico agisce lentamente e con intensità crescente, più si ritorna alle sue nitide immagini più si è presi
dall’ineffabile mistero della sua poesia; le parole cadono dentro di noi come
una foglia, un piccolo ramo, una
minuscola bacca in uno stagno silenzioso che si anima di cerchi.
Il segreto di tale effetto è che si tratta
di una poesia che bandisce ogni accenno di ragionamento. Nei versi minimi e
incisivi della Verdirame non si nasconde
un significato particolare da capire, non c’è nessuna arguzia da
cogliere (da questo punto di vista l’haiku è l’esatto contrario dell’epigramma), ma vi palpita lo sguardo della coscienza
che plana sugli esseri e sulle cose con una adesione fatta di empatia e di silenzio mentale. La fruizione
dell’haiku, la sua esperienza estetica non ammettono richiami letterari contenutistici, qui il critico deve
deporre i suoi strumenti eruditi, pena
il mancato incontro con la vibrazione intima dell’opera.
In
virtù della cultura zen che lo ha prodotto, la peculiarità dell’haiku è costituita dalla sua funzione, dalla sua strumentalità
protesa a entrare nella realtà senza interpretarla. Non è una poesia che accresce le nostre cognizioni
sull’universo, ma ce ne fa vivere la bellezza in piccoli distillati, ai quali
la poetessa cede tutto lo spazio mettendo da parte anche il proprio io. Se
abbiamo ben contato sono 259 componimenti e in quasi tutti (poche le eccezioni come: chiudo negli occhi/una palma
di datteri/dolce nostalgia) non
interferisce nessun io a contendere la scena alle creature che vediamo
scorrere libere e vere nella loro
cristallina oggettività. Protagonisti assoluti del verso ( rose di macchia/sul margine del bosco/ affreschi vivi; oppure: piccoli semi/ hanno messo radici /nelle
fessure; oppure ancora: uccelli in
fuga/ dall’albero atterrato/ senza
pietà) alberi, fiori, animali vivono per un breve momento nella nostra
attenzione, insospettabili maestri nel semplificare il mistero dell’esistere.
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