sabato 23 marzo 2013

DIEGO GUADAGNINO, Nel fiume di Eraclito

Sulla spiaggia di Marina di Modica, alle sette del mattino,  il mio amico Salvatore Fratantonio  mi parla del processo creativo;  racconta come nasce il progetto che si realizza sulla tela, finché si sofferma sopra un particolare, e come osservando l’idea che precede la pittura dice: “Quasi sempre mi succede che mentre dipingo un’immagine essa mi si modifica dentro, la forma si altera, si fa altra nei contorni, pur mantenendo la sua originaria identità strutturale;  le atmosfere mutano, una nuvola si disfa, un giallo sfuma verso l’arancione. Il risultato finale dell’opera cristallizza soltanto una fase, un attimo, un passaggio di quel movimento e il quadro diventa la negazione del fluire dell’idea; o, se vogliamo,  la rappresenta come la farfalla secca e spillata di un collezionista può rappresentare tutte le farfalle della stessa specie”.

   L’argomento mi richiama subito  il panta rei, il tutto passa, l’impossibilità di potersi bagnare due volte nello stesso fiume che stanno alla base del pensiero di Eraclito. Non solo l’idea dell’artista, ma come il fiume che scorre tutto sta mutando intorno a noi: non esiste quiete tra gli atomi e anche la più compatta delle forme si sta segretamente sgretolando all’insaputa dei nostri sensi troppo grossolani per poterlo percepire. Il dialogo che si sviluppa lungo il mare diventa la causa efficiente di questa mostra, per la quale il Maestro ha voluto adottare la metafora fluviale di Eraclito come titolo. I dipinti attraverso l’apparente somiglianza di paesaggio che li accomuna nascono dall’idea del mutamento, vogliono suggerire il concetto dell’inarrestabile fluire del tutto al cui cospetto ogni arte non puo’ che denunciare il proprio limite.
   Fu probabilmente l’ardito proposito di ridurre a scrittura l’incessante mutamento a muovere la mano dell’estensore dell’ I King o Libro dei Mutamenti, che si pone come l’espressione orientale del principio enunciato dal filosofo di Efeso. Il risultato è un sistema di linee ordinate in esagrammi che rimandano all’intuito interpretativo del consultante; contrariamente all’apparente promessa del titolo, l’antico testo cinese non rappresenta il mutamento ma invita a coglierlo nello specchio segreto di se stessi, certificando ancora una volta l’irriducibile distanza tra il pensiero fissato in simboli e la viva realtà.
   Fratantonio, dipingendo i paesaggi della sua terra e seguendo i passaggi della sua meditazione, senza sospettarlo è risalito a una domanda che non solo l’artista ma anche il poeta e il filosofo si sono sempre posti. Quanta realtà c’è nella mia opera? La risposta che ha dipinto su queste tele non si discosta da quella che Jorge Luis Borges tramite una rosa gialla ha fatto affiorare nella mente  di Giambattista Marino. Al poeta che capitanò il secolo XVII viene posata accanto al letto di morte una rosa gialla, ed egli, guardandola, mormora alcuni versi con i quali l’aveva cantata nel tempo glorioso delle sue ispirazioni. “Allora accadde la rivelazione. Marino vide la rosa come poté vederla Adamo nel Paradiso e sentì che essa stava nella propria eternità e non nelle sue parole e che noi possiamo menzionare  o alludere ma non esprimere  e che gli alti e superbi volumi che formavano in un angolo della sala una penombra  d’oro non erano (come la sua vanità aveva sognato) uno specchio del mondo, ma una cosa aggiunta al mondo.”

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