Volentieri ho accettato l'invito del professor
Gaetano Augello a scrivere questa nota introduttiva alla biografia di
monsignor Angelo Ficarra, che, per le qualità e lo spessore della sua
personalità, il passare degli anni rende sempre più vicino alla
sensibilità e alle problematiche dei suoi posteri. Se il volumetto
sciasciano, sulla nota vicenda della sua rimozione da vescovo della
diocesi di Patti, lo ha fatto conoscere al grande pubblico, la biografia
scritta adesso da Augello, pregevole per la ricchezza di documenti
consultati e di notizie raccolte, rivela gli aspetti intimi dell'uomo,
il prestigioso retaggio culturale, le scelte che ne hanno segnato la
vita, dandoci così un'opera destinata a diventare punto di riferimento
imprescindibile per quanti in futuro si vorranno cimentare con la figura
e l'opera di Angelo Ficarra.
Già nel dicembre del 1980, ebbi ad interessarmi di monsignor Ficarra, allorquando fui incaricato di introdurre e moderare il dibattito con Leonardo Sciascia, venuto a Canicattì per presentare la sua opera Dalle parti degli infedeli (titolo che inaugurò la collana selleriana "La Memoria"), uscita nell'anno precedente. Ricordo che in quella circostanza avviai il discorso rilevando come nelle locandine che pubblicizzavano l'evento, per un refuso tipografico che cambiava Dalle con Dalla, era stato erroneamente scritto Dalla parte degli infedeli; citando Savinio, autore amato e apprezzato da Sciascia, dissi che quel refuso definiva più correttamente e forse più profondamente la vicenda del vescovo Ficarra, che, relegato in mezzo agli infedeli, proprio da questi ora gli veniva rivendicata quella giustizia che gli era stata negata dai suoi. Commentando tale notazione, più tardi, Sciascia osservò che spesso " gli innocenti errori di stampa denudano le verità costruite dagli uomini".
Già nel dicembre del 1980, ebbi ad interessarmi di monsignor Ficarra, allorquando fui incaricato di introdurre e moderare il dibattito con Leonardo Sciascia, venuto a Canicattì per presentare la sua opera Dalle parti degli infedeli (titolo che inaugurò la collana selleriana "La Memoria"), uscita nell'anno precedente. Ricordo che in quella circostanza avviai il discorso rilevando come nelle locandine che pubblicizzavano l'evento, per un refuso tipografico che cambiava Dalle con Dalla, era stato erroneamente scritto Dalla parte degli infedeli; citando Savinio, autore amato e apprezzato da Sciascia, dissi che quel refuso definiva più correttamente e forse più profondamente la vicenda del vescovo Ficarra, che, relegato in mezzo agli infedeli, proprio da questi ora gli veniva rivendicata quella giustizia che gli era stata negata dai suoi. Commentando tale notazione, più tardi, Sciascia osservò che spesso " gli innocenti errori di stampa denudano le verità costruite dagli uomini".
Annoverai la figura di monsignor Ficarra tra i personaggi creati dallo
scrittore, dal professor Laurana a Candido Munafò, tutti accomunati da
quel particolare e scomodo "candore" che Bontempelli aveva visto in
Pirandello affermando che "l'anima candida è divinamente incauta". Per
tale divino attributo, presente nell'uomo in maniera macroscopica, e per
la sua emblematica vicissitudine col potere (che fosse ecclesiastico è
di secondaria importanza), Angelo Ficarra rientrava di diritto nel
pantheon dei personaggi sciasciani. Tra gli altri, erano presenti al
dibattito, tenutosi nella sala consiliare del Comune, l'avv. Calogero
Corsello, l'onorevole Giuseppe Signorino (a cui Sciascia rivolse un
caloroso "Ma noi ci conosciamo", accolto con perplessità dall'onorevole
che non ricordava in quale occasione si fossero incontrati), l'arciprete
don Vincenzo Restivo, il prof. Angelo La Vecchia, il prof. Gaetano
Ferreri. A ogni intervento, Sciascia puntualmente mi chiedeva sottovoce
"Cu è chistu?", tanto che finii per prevenire la domanda assecondando la
sua legittima curiosità ogni volta che qualcuno si alzava per parlare.
L'ultimo e il più memorabile intervento fu quello dell'arciprete, il
quale, premettendo la sua stima per lo scrittore la cui grandezza era
ormai "riconosciuta dentro e fuori le mura", passò ad accusarlo di avere
utilizzato mons. Ficarra per scrivere un libro che nello spirito
risultava volterriano ed anticlericale. Rispose Sciascia che lui da
laico non si poneva problemi di tal genere. Al che monsignor Restivo
propose una domanda nuova: "Visto che lei nelle sue opere dimostra di
avercela tanto con la Chiesa, non sarà che per caso da bambino abbia
subito qualche trauma nel rapporto con i suoi rappresentanti?" Sciascia,
lievemente sorridendo a quel tipo di domanda, precisò: " Monsignore, io
non ho subito nessun trauma nell'infanzia. Le mie posizioni
scaturiscono dal ruolo che la Chiesa ha avuto nella storia nel corso dei
secoli." "Per esempio?" "Ma non pretenderà che io le faccia qui tutta
la storia della Chiesa." L'arciprete riprese dilungandosi in altre
valutazioni critiche sull'aver pubblicato delle lettere che avrebbero
dovuto far parte del patrimonio esclusivo della Chiesa. Lo scrittore lo
interruppe, ora ponendo lui una domanda precisa. "Secondo lei,
monsignore, questo libro si doveva scrivere o non si doveva scrivere?"
L'arciprete ci pensò sopra qualche istante e quindi rispose: "Secondo
me, no." "Appunto per questo l'ho scritto" concluse l'autore, alzandosi e
ponendo fine al dibattito, mentre dalla sala si levava l'applauso
finale.
Non c'è dubbio che il giudizio di mons. Restivo, sulla opportunità del
libro, riflettesse, nella sua estrema sintesi, il disagio di una Chiesa
venutasi a trovare nella necessità di dover fronteggiare un dibattito,
provocato da parte laica, su un suo ministro, che, morto vent'anni
prima, avrebbe preferito dimenticare in coerenza con l'emarginazione a
cui l'aveva condannato da vivo. Quel disagio, probabilmente, nasceva
dalla consapevolezza che mons. Ficarra fosse stato vittima di
un'ingiustizia, ma che, nel contempo, non si sapesse ancora come
affrontare e riconoscere pubblicamente tale fatto: tipico dilemma che il
potere come entità storica istituzionalizzata crea nelle coscienze dei
suoi subordinati, quando fatti che ripugnano al comune senso di umana
dignità si siano resi necessari alle sue ragioni. E tale consapevolezza
negli ambienti ecclesiastici doveva essere presente e viva già
all'indomani della scomparsa del presule, se nella sua casa d'affitto in
via Magenta a Canicattì, allora abitata dal fratello Calogero, si
presentarono a reclamarne l'archivio privato, e con interesse
particolare la corrispondenza, in un primo momento esponenti del clero
locale, in un secondo momento il segretario della curia vescovile di
Agrigento e ancora successivamente, considerato l'inamovibile diniego
dei familiari, un prelato venuto da Roma, che reiterò la richiesta
minacciando scomunica. Minaccia che non sortì l'effetto voluto e
l'archivio dopo qualche tempo, per volontà dei nipoti Angelo e Luigi
Ficarra, approdò, escluse le lettere ed inclusa la biblioteca,
all'Istituto Gramsci Siciliano: in partibus infidelium,
appunto. Il quadro del caso Ficarra nell'ambito della cultura cattolica,
oggi, a ventotto anni dall'uscita del libretto sciasciano, appare
mutato, ma non univoco. Negli anni si sono succedute diverse prese di
posizione con letture differenti dei fatti, evidenziando come a
tutt'oggi non sia possibile parlare di una sua definitiva chiusura.
Valgano in tal senso due pubblicazioni, che Augello ha diligentemente
compulsate per la stesura della suo saggio biografico e che in questa
sede vengono evocate e citate a titolo esemplificativo. Parlo dei due
volumi Mons. Angelo Ficarra Vescovo di Patti(1936-1957) a cura di Alfonso Sidoti (Patti 1999), e Mons. Giuseppe Pullano Vescovo di Patti (1957-1977)
a cura di Basilio Scalisi, (Patti 2005), che contiene un capitolo a
firma di Pio Sirna, docente dell'Istituto Teologico Diocesano "Mons.
Angelo Ficarra" di Patti, sul "problema Ficarra".
Il Sirna, pur riconoscendo "le modalità repellenti" con cui l'intervento
della Santa Sede è stato attuato, ne avalla in toto le ragioni
sintetizzandole nelle inadeguate condizioni fisiche di Ficarra e nella
conseguente "mancanza di slancio missionario", in un momento in cui Roma
auspicava e si aspettava dai vescovi una pastorale in forma di crociata
anticomunista, improntata allo spirito della guerra fredda iniziata con
la fine del secondo conflitto mondiale.
"Il contendere, dunque," scrive Sirna "ci pare che abbia per oggetto non
tanto un semplice scontro tra due personalità forti, Ficarra e Piazza,
durato ben sette anni, quanto piuttosto e soprattutto il bisogno romano
di tenere una diocesi, anche se marginale nello scacchiere italiano, al
centro dell'aspra lotta di difesa della civiltà cristiana". Ma tale tesi
non convince e soprattutto non regge al vaglio dei fatti. E che sia
così viene fuori dall'analisi condotta, sempre in casa cattolica, da
mons. Alfonso Sidoti, il quale, nel suindicato testo, con specifico
riferimento al presunto pericolo dello spettro comunista che si sarebbe
aggirato in quel di Patti e alla impellente necessità di combatterlo,
scrive: "A Patti e nell'intera diocesi, le elezioni del 1946 (quelle per
la Costituente) e soprattutto le politiche generali del 1948 avevano
decisamente sbarrato il passo al Fronte Comunista”. Era quello, in quei
tempi, l'impegno principale della Chiesa, sul piano politico. Il 18
aprile 1948, nella diocesi di Patti, "la Democrazia C. ha avuto 46.000
voti; tutti gli altri partiti insieme 50.000 dei quali il blocco
popolare (i socialcomunisti) solo 13.500”, come leggiamo nella Relazione
sull'attività dell' A.C.I. per l'anno 1948, inviata alla Sede centrale
dal Presidente Diocesano dell' A.C.I. Da tale impegno mons. Ficarra non
si era affatto estraniato. Altrettanto puntuale e motivata appare
l'analisi delle reali contingenze in cui la D.C. si trovò ad affrontare
la campagna elettorale delle amministrative del 1946 dalla quale uscì
sconfitta. "E' noto a tutti" riferisce Sidoti "che, a Patti, la
Democrazia Cristiana stentò a nascere. Non c'erano personaggi di spicco
che avessero militato nelle file del Partito Popolare di don Sturzo.
L'Azione Cattolica qui si era formata solo dopo il 1932 e non aveva
avuto il tempo di offrire alla politica persone preparate per i nuovi
compiti."
Un particolare curioso che risalta dal confronto dei testi di Sirna e
Sidoti e che merita di essere qui additato all'attenzione del lettore è
che entrambi si soffermano su due biglietti autografi del vescovo per
ricavarne valutazioni di segno opposto. Osservando i due autografi,
Sirna ritiene di intravedervi "uno scrivere faticoso, tendente a
caricarsi di singolarità, tremolante", che "sembra mostrare i segni di
una progressiva difficoltà ad autodeterminarsi" e quindi, una prova
delle precarie condizioni fisiche che resero necessaria la discussa
promozione. Al contrario, mons. Sidoti, di uno dei due autografi
afferma: "Questo biglietto nella sua sconcertante semplicità, ci svela
il vero animo del vescovo e basta da solo a smentire le accuse
accumulate contro di lui"; mentre trova l'altro autografo "scritto con
la grafia inimitabile e inconfondibile di mons. Ficarra. E' la bozza di
una lettera, immune da ripensamenti o correzioni." Tralasciando ogni
altra valutazione di merito, le discordanti letture del caso Ficarra,
provenienti dalla stessa matrice cattolica, denotano che la rimozione o
defenestrazione, come la chiama Augello, non ha avuto una base oggettiva
e concreta a suo fondamento e men che meno il pericolo comunista
nell'ambito della diocesi pattese. Fu piuttosto un evento maturato in
quel torbido clima di fanatismo integralista indotto dalla politica di
Pio XII e propugnato dai comitati civici di Gedda. In particolare si
trattò di un atto di isteria repressiva che in quel contesto specifico
faceva di Angelo Ficarra una vittima quasi predestinata. E tale
sacrificale qualità discendeva dalla sua biografia, dalla sua identità
culturale, dalle scelte che avevano caratterizzato il suo apostolato, e
in ultimo, ma non in misura meno determinante, dalla sua indole
infinitamente lontana da ogni forma di intolleranza e di fanatismo, due
modalità di fare apostolato che in quel momento il Vaticano, invece,
anteponeva a ogni altra. La sua indiscussa santità, il suo tanto lodato
spirito di carità, in teoria gli attributi primari e più preziosi di una
pastorale cristiana, in quel contesto non servivano e non lo salvarono
dall'emarginazione punitiva, anzi in parte ne furono la causa. Alla
santità furono preferiti il fanatismo e l'intolleranza. E vinse
l'intolleranza accecata dal fanatismo. Il rapporto tra l'inquisito
Angelo Ficarra e l'inquisitore Adeodato Giovanni Piazza, a questo punto,
si erge in tutta la sua umana imponenza e senza la copertura
istituzionale che artificialmente attutisce la muta sofferenza di un
uomo giusto ingiustamente condannato e l'accanimento persecutorio di un
altro uomo che mette al servizio dell'Istituzione la parte peggiore di
se stesso, e siamo propensi a credere con le migliori intenzioni, che in
tali frangenti si fanno discendere dai fini. I due uomini, che
s'incontravano e si scontravano all'interno di quella vicenda,
provenivano da percorsi diversi: una diversità che certamente pesò su
quel rapporto e pesò a tutto discapito del soccombente. Angelo Ficarra
era entrato in Seminario ubbidendo a una vocazione autentica e totale.
Memorabili le parole che scrive nel suo diario: "In Seminario, o mio
Dio, la mia mente è più unita a Voi, il mio cuore gusta maggiormente le
caste gioie del Vostro amore, il mio corpo ubbidisce completamente
all'anima." Quest'ultima frase gli risuona dentro come un programma di
vita che svolgerà con dedizione assoluta e con impeccabile rigore. Il
corpo è il territorio del rapporto possessivo con il mondo, in esso
convergono gli appetiti, le ambizioni e le vanità che distolgono
dall'anima e Angelo ha optato per quest'ultima. Ma vivere nell'anima non
vuol dire chiudere le porte alla terra, ma cristianamente abitarla nel
disinteresse per sé e nella dedizione per gli altri e soprattutto per i
più bisognosi, giacché solo l'uomo liberato dalla miseria materiale può
intravedere, capire e gustare i tesori di una religiosità vissuta.
Aiutare gli altri a riscattarsi dalla povertà, dalla superstizione,
dall'analfabetismo è il modo più concreto ed efficace di avvicinarli a
Dio.
E il giovane prete, confortato da tali intuizioni, profonde le sue
risorse intellettuali sulle colonne de “Il Lavoratore”, il periodico
fondato da don Nicolò Licata, arciprete di Ribera, dove Angelo Ficarra
viene assegnato non appena ordinato. Su quel foglio viene pubblicando,
tra l'altro, le Meditazioni vagabonde, che costituiranno il nucleo originario di quell'eccezionale saggio sulla religiosità popolare che, col titolo Le devozioni materiali,
uscirà postumo perché censurato dai suoi superiori. Istituisce una
scuola serale per i contadini. Indirizza le sue simpatie verso il
modernismo. E in virtù del suo indefesso impegno sociale riscuote un
pubblico attestato di stima da parte del deputato repubblicano Napoleone
Colajanni. La dedizione verso il prossimo, tuttavia, non gli impedisce
di attendere agli studi umanistici, dedicandosi alla compilazione della
sua mirabile monografia su san Girolamo. Se si volesse dare un nome allo
spazio psicologico o alle direttrici entro cui si svolge la vita di
Angelo Ficarra non ci sarebbe definizione migliore del bel titolo di un
libro di Jean Leclercq, L'amour des lettres e le dèsire de Dieu.
In tali contesti viene a contatto con uomini come Ernesto Buonaiuti,
uno dei maggiori teorici del modernismo, punito per le sue convinzioni
sia dalla Chiesa con la scomunica che dal fascismo con l'allontanamento
dalla cattedra universitaria. Intrattiene rapporti di amicizia e di
collaborazione culturale col suo concittadino Calogero Angelo Sacheli,
filosofo, docente universitario, laico e socialista.
Nominato arciprete a Canicattì, vi fonda l'Azione Cattolica, i cui
locali una notte del luglio 1923 vengono incendiati dai fascisti. E' il
periodo in cui imperversa lo squadrismo che porterà alla soppressione
della democrazia. I fascisti di Canicattì, nel gennaio 1925, fecero una
sfilata in corso Umberto, inneggiando alla instaurazione formale della
dittatura; in quell'occasione, scrive Luigi Ficarra in una e-mail
inviatami nel giugno 2007, "il fratello di Angelo Ficarra, Vincenzo,
aderente al Partito Socialista, che era seduto al Circolo degli Operai,
coerentemente non si alzò e non si tolse il berretto. La sera tardi,
tornando verso casa, venne, al buio, aggredito lungo la strada da una
squadra di fascisti, che lo colpirono ferocemente a manganellate sulle
spalle. Riuscì a trascinarsi a casa, ma ne uscì a febbraio con i piedi
davanti, chiuso in una bara. Il 15 febbraio 1925 Angelo Ficarra, che
sapeva dell'aggressione fascista al fratello, ma non aveva la prova,
così scriveva su "La Primavera Siciliana" riferendosi all'incendio del
Circolo: “quale meta hanno raggiunto i nostri nemici...con l'insultarci,
il danneggiarci ed incendiare il nostro circolo? Chi poteva mai
sognarlo che Canicattì...doveva avere oggi un gruppo di giovani forti e
votati a qualunque cimento... ?"
Tale retaggio culturale, sociale e familiare poneva lontano mons.
Ficarra dall'ideologia del fascismo, e l'ormai famoso "incidente
diplomatico" di Librizzi non può essere letto come un fatto episodico
senza alcun nesso causale con la sua storia personale e con la sua
concezione dell'impegno religioso nella società civile. Lo stesso dicasi
della sua adesione, nell'estate del 1950, all'Appello per la Pace di
Stoccolma, promosso dal movimento dei "Partigiani per la Pace". Pur
essendo in pieno clima di anticomunismo viscerale, di caccia alle
streghe e di scomunica papale infetta ai comunisti, egli non esitò ad
apporre la sua autorevole firma su quel documento, accanto a quella di
tanti rappresentanti del movimento operaio internazionale. Non si può
fare a meno di rilevare come la politica vaticana negli anni fosse
cambiata, irrigidendosi, chiudendosi al dialogo con le forze laiche
progressiste e facendosi, così, sempre più lontana ed estranea ai
modelli a cui si era ispirata la formazione e l'opera del Ficarra. Il
tragitto involutivo del Vaticano, ovviamente, non poteva che risolverei
in una strisciante delegittimazione della sua figura.
Nel momento in cui il suo caso arriva alla Congregazione Concistoriale
in persona del suo prefetto cardinale Adeodato Giovanni Piazza, mons.
Ficarra (e qui ci sia consentita a titolo esplicativo la metafora
giudiziaria) si trova nella situazione del soggetto, ritenuto
socialmente pericoloso, che gli organi di polizia propongono per la
misura di prevenzione: non si è reso colpevole di nessun preciso fatto
di reato, ma i suoi trascorsi e le sue frequentazioni lo rendono
passibile della misura dell'obbligo o del divieto di soggiorno. E in
quel particolare momento di integralismo asfittico il curriculum del
presule canicattinese non deponeva a suo favore per sfuggire al "divieto
di soggiorno nel Comune di Patti".
Tanto meno l'incaricato rappresentante della Congregazione Concistoriale
era la persona idonea a valutare, a giudicare con il distacco e
l'obbiettività necessari le calunnie imbastite nei suoi confronti. Mons.
Piazza, a cui nessuno finora, a quanto ci risulta, nel trattare la
vicenda che ci occupa, ha cercato di dare una circostanziata identità
biografica, era un uomo non solo con un carattere a cui il Sidoti
attribuisce durezza e limitatezza, ma con un passato che lo poneva agli
antipodi dei percorsi compiuti dal Ficarra. Scrivendo del suo
patriarcato veneziano nel periodo bellico, Umberto Dinelli, uno degli
storici più accreditati della Resistenza in Veneto, afferma: " Ma la
condotta più sorda e reazionaria fu quella di Adeodato Piazza a Venezia.
Nel '44 per I discorsi del giorno, una raccolta edita dal
Ministero della cultura fascista e che già aveva ospitato scritti di
Hitler e di Mussolini, esce un discorso del più impopolare tra i
cardinali che ebbe Venezia, Piazza, pronunciato nella basilica di san
Marco il 16 agosto '44. Vi si legge: "Dinnanzi al primo micidiale
attacco portato dal nemico nel cuore di Venezia dopo stragi e rovine
compiute alla periferia, non possiamo oggi non elevare alta ed energica
la nostra deplorazione per siffatti metodi..." E più avanti: "Noi ci
sforziamo di comprendere le inevitabili leggi della guerra moderna...".
La posizione del Piazza rispecchiava certi postulati teologici in
materia di rapporti con l'autorità costituita garante di un ordine e di
una stabilità sociale, dalla Chiesa ritenuti indispensabili. Pertanto
anche un regime di occupazione, in quanto governo, doveva essere
rispettato. Nel cardinale di Venezia legalitarismo e conservatorismo
cattolico raggiungevano manifestazioni estreme assumendo un preciso
significato: quello di favorire e fiancheggiare la politica
nazifascista. Assumendo come rappresentanti dell'autorità i fascisti e i
tedeschi, i nemici diventavano gli stati in lotta contro Hitler e i
suoi caudatari". Giustamente è stato rilevato che "nel momento in cui i
provvedimenti razziali incrinavano indubbiamente le relazioni tra la
Chiesa e il fascismo", il cardinale Piazza "non solo accetta quei
provvedimenti ma esalta l'amicizia con la Germania nazista". Questo
squarcio della biografia politica del Piazza, ancorché limitato nel
tempo, è tuttavia sufficiente a rimarcare l'enorme distanza di agire e
di sentire che divideva i due protagonisti, lasciando nel contempo
intuire quanta equilibrata disponibilità potesse egli accordare
all'esame delle ragioni di mons. Ficarra. Né, alla luce di tanto, può
stupire che fosse arrivato al punto di rifiutarsi di riceverlo
personalmente, allorché il vescovo di Patti ebbe a chiedere udienza
espressamente. Inutile dire che in quel preciso periodo storico, più che
le idee e le virtù del vescovo di Patti, riuscivano più utili e
funzionali al potere del Vaticano i connotati politici e culturali di un
cardinale Piazza. Ma sono anche quegli stessi connotati che oggi lo
rendono estraneo a noi, estraneo e lontano simulacro del tempo, chiuso
nella sua opaca e sterile solitudine. Il libro di Gaetano Augello, tra i
tanti meriti, ha quello di porre l'accento sulla "giustizia negata" al
vescovo di Patti che viene promosso arcivescovo di Leontopoli di
Augustamnica, un'ironia, questa, che ne riecheggia un'altra: quella di
Togliatti che soleva dire di Elio Vittorini "Vittorini si nne gghiuto e
suli ci ha lassatu", facendoci percepire l'ordinaria somiglianza tra due
"casi" che contemporaneamente si verificavano nella famiglia cattolica e
in quella comunista. Il candore scomodo di mons. Ficarra fece di lui un
limpido testimone della spietatezza del potere e, in virtù di tale
destino, un contemporaneo dei suoi posteri, come tutti coloro che
essendo giusti hanno subito l'ingiustizia e che in quanto tali non
appartengono a nessuna chiesa ma all'umanità tutta, finché sopravviverà
il senso della dignità e della pietà.
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