Nella storia personale di Gonzalo Alvarez Garcia, Dios a la vista! (2013) costituisce il redde rationem tra l’ex prete e l’uomo nuovo con la sua Welthanschauung illuminista, tra il figlio dell’ambiente nativo e il figlio dalla propria consapevolezza. Se con Nidi di airone. Memorie di un prete franchista (2011) l’Autore ha narrato l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza fino alla crisi spirituale che lo porterà ad abbandonare la Chiesa, qui espone la teologia d’approdo, la concezione del fenomeno religioso maturata in lunghi anni di riflessioni.
Il saggio di Ortega y Gasset, da cui mutua il titolo, gli serve solo da spunto per avviare una serie di considerazioni sul concetto di divinità e sui rapporti tra le principali religioni nella necessaria convivenza imposta dalla globalizzazione.
Dopo i facili entusiasmi della breve stagione positivista, che aveva proclamato la vittoria definitiva della scienza sulla religione, il filosofo spagnolo Ortega y Gasset nel 1926 pubblica un saggio dove la nave della storia avvista Dio all’orizzonte. Ma non è il Dio del passato, è un Dio laico sottratto al monopolio delle chiese e dei teologhi.
È un Dio che soprattutto non teme le indagini scientifiche, anzi, le sollecita promuovendo l’idea di una scienza che esplori quei problemi, reali ma misteriosi, che stanno ai confini ultimi della fisica o sulle soglie della metafisica. Sulla traccia di Ortega, Alvarez, abbattendo il muro di pregiudizio eretto tra scienza e religione, si chiede “non sarebbe un compito abbastanza degno degli scienziati scoprire perché esistono questi miti e perché ogni popolo li interpreta e li vive secondo la sua peculiare tradizione?” I miti, solo “apparentemente innocui”, in realtà sono espressione culturale di forze ignote capaci di costruire o distruggere civiltà, come nel caso del nazismo che scatena la barbarie riesumando mitologie morte.
Il compito che l’Autore assegna agli scienziati, sembra scaturire dall’ottimismo che ispira la storia della scienza nella sua secolare lotta contro l’oscurantismo da sempre funzionale ai detentori del potere. La vicenda di Galileo è emblematica dello scontro tra libertà d’indagine e autorità, tra verità scientifica e menzogna istituzionale. Tale storia tuttavia non lascia presagire la possibilità che il potere usi le vesti della scienza per coprire la propria ideologia. Ma è quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Nell’era della globalizzazione si verifica un fenomeno inquietante, di cui Alvarez non parla ma che non è possibile ignorare: gli scienziati stanno occupando il posto lasciato dai teologi. Ieri erano questi che approntavano le giustificazioni ideologiche ai soprusi del potere. L’infelicità umana determinata da un potere iniquo trovava la sua ragione d’essere in una costruzione fantastica dove i conti tornavano e tutto aveva un senso. Oggi a fornire la stessa giustificazione, a un potere ugualmente iniquo, sono quegli scienziati compiacenti, che con un termine storicamente significativo possiamo definire “collaborazionisti”, anche il nazismo aveva i suoi scienziati. E, grazie al connubio di scienza e potere, ci avviamo verso una società in cui non saremo più padroni del nostro corpo, una società in cui sarà l’élite governante a decidere quanto e come dobbiamo vivere, quando e come dobbiamo morire. Le distopie profetizzate da scrittori come Orwell ed Huxley, nella loro dimensione letteraria, sono costruite dal potere politico e supportate dal sapere scientifico. Prevederle non è stato sufficiente a esorcizzarle. Quei testi che fino a ieri ci sembravano curiosità fantascientifiche ora incombono sempre più sulla vita di tutti i giorni.
In un tempo in cui l’inganno, l’impostura attraverso l’informazione e i messaggi subliminali diventano sempre più ‘creatori’ di realtà, il saggio di Alvarez ci appare come un viatico o un manuale di ‘istruzioni’ per affrontarla. A farlo tale è la pacata pedagogia del ragionamento come metodo di pensiero che ne anima le pagine. “Il genere umano, dice all’inizio, non ha saputo fare a meno di coinvolgere gli Dei nelle sue vicende personali, pulite o sporche che fossero (…) Eppure non ha voluto mai occuparsene direttamente. Ha ‘delegato’ sempre qualcun altro. Da alcune migliaia di anni a questa parte, in Occidente e altrove, le uniche persone autorizzate a occuparsi degli Dei sono stati i sacerdoti e i profeti, che sono diventati una sorta di Magistratura della Divinità”. L’invito a revocare la delega ad altri e ad attivare la propria intelligenza viene svolto attraverso quegli autori da cui Alvarez ha imparato a pensare, i razionalisti, gli illuministi, ma soprattutto il filosofo olandese Baruch Spinoza (cui è dedicata la seconda parte), il cui sistema filosofico viene considerato “il più riuscito tentativo di elaborare una teologia laica”.
Spinoza domina sull’intero saggio, anche quando si parla di poesia. Alvarez, poeta prima che filosofo, enuncia non una poetica ma una concezione della poesia in cui è ravvisabile la diretta discendenza dall’Ethica spinoziana. “I poeti – afferma – possiedono il gusto della realtà molto sviluppato. Non vogliono rinnegare del tutto neppure il male. A loro basta che sia moderato e non distrugga o avveleni interamente ogni cosa. Per il poeta l’irrazionalità della via è tanto necessaria quanto la logica. Le passioni, l’arte, la religione stessa e, in generale, tutto quanto dà valore all’esistenza, hanno poco a che vedere con la logica. Soltanto le persone di mentalità troppo ristretta possono pretendere che la natura umana sia un sillogismo. I Greci vedevano nella Natura la prova migliore dell’esistenza e della presenza di Dio. Molti di noi, invece, credono che la Natura sia nemica di Dio”.
Come Spinoza col suo Deus sive Natura, il poeta con la sua sensibilità abbraccia tutto ciò che esiste. Tale capacità di visione lo pone nella stessa posizione del saggio, anche se, a differenza del saggio, non tralascia di dar voce alla gamma variegata delle emozioni. L’emozione, positiva o negativa non importa, appartiene anche’essa alla Natura, ed esprimerla significa poterla dominare senz’esserne travolti. Tradurre in poesia un’emozione è un atto dello spirito che fonda o alimenta la civiltà, perciò “Le più alte forme di vita fiorite tra i popoli conducono ai poeti”. Vero è che la poesia, in tutte le sue forme, oggi è la voce meno considerata e ancor meno ascoltata, ma è altrettanto vero che riesce “difficile immaginare una classe dirigente più vanitosa e più povera di passioni di quella che oggi guida il mondo! Le generazioni future si occuperanno con ripugnanza di un’epoca in cui a governare non sono stati degli uomini veri, ma piccole, spavalde parvenze d’uomo…”
Tra tutti i filosofi, Spinoza è forse quello che più di ogni altro ha esercitato un fascino irriducibile su poeti e scrittori. Da Goethe a Flaubert, a Borges a Singer, in tanti lo hanno amato ed eletto a filosofo di riferimento: segno che la sua filosofia riesce a raggiungere il fondo universale dell’essere, esattamente come la poesia più autentica. Ma a certe latitudini i generi non esistono più.
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