Anche Nino La Gatta inteso Mascarò se n’era andato all’estero lasciando moglie e figli. Nella vaneddra, però, si sussurrava che non aveva emigrato per bisogno, ma per colpa di un destino che gli faceva il cuore nero come la pece. Un lavoro per campare, infatti, ce l’aveva: faceva pulizie al macello comunale o, come diceva la gente, lavava merda e sangue di animali. Ma sulla scena della vita gli era toccata la parte di diavolo infelice.
Quel destino s’era sviluppato, come una sinistra profezia, da una frase, una semplice frase che una sera, al tavolo dell’osteria di Masciu Piddru, Giusto Pintaloru gli aveva rivolto per ferirlo nel più forte sentire del suo orgoglio.
I due giocavano a briscola sorseggiando vino, quando il gioco degenerò in lite, la lite in insulti e gli insulti in sparatoria dietro la bettola, in un cortiletto buio dove a tarda sera andavano a vomitare gli ubriachi e di giorno giocavamo a nasconderci noi ragazzi.
Convinto che barasse, pare usurpando un carico di briscola, Pintaloru gli aveva detto :“La verità è che sei un pezzo di cornuto”. Nino, tra i fumi del vino e quelli dell’offesa, non ci vide più dagli occhi e di rimando mormorò gelido tra i denti: “Esci fuori, se hai coraggio”. Quello, che di coraggio in quel momento dovette sentirsene abbastanza da raccogliere la sfida, si alzò e lo seguì, niente sapendo della pistola che lo sfidante teneva in una tasca. La guerra finita da poco aveva lasciato in giro una quantità di armi clandestine che precarizzava il valore della vita, facendo sì che i futili motivi del codice penale diventassero, tempo un momento, valide ragioni per uccidere qualcuno. E infatti, Nino, appena furono in quel sordido cortile, gli sparò due colpi: uno finì a vuoto, l’altro lo ferì alla spalla.
Andò in galera e ci restò per alcuni anni, durante i quali ogni settimana la moglie prendeva l’autobus e lo andava a trovare, a volte anche con la suocera, altre con i figli.
La galera Nino la scontò cosciente di aver fatto bene a comportarsi come s’era comportato. Lo chiamavano Mascarò per questo, per la sua fierezza, giusto per significare che avvicinandolo bisognava trattarlo con cautela, come si fa con una pentola incrostata di fuliggine, di mascarò, se non ci si vuole mascariari. Lui questo lo sapeva e portava come una medaglia al valore l’ingiuria che gli avevano appioppato.
“Quello con l’anello”, così chiamavo l’ambulante di biancheria a rate, che periodicamente arrivava nella vaneddra con la sua macchina, l’abitacolo zeppo di mercanzia e il portabagagli torreggiante di scatoloni. Ogni ambulante aveva un grido inconfondibile che notificava il suo passaggio alla vaneddra, questo, invece, non gridava mai, bastavano pochi colpi di clacson e le donne si affacciavano sugli usci, venivano fuori dalle case e in pochi minuti s’arrocchiavano intorno alla vettura. Lui era quello che si dice un bell’uomo, sui trentacinque anni, pancetta e ciuffo cascante sulla fronte, alla moda degli attori e dei cantanti. Portava un grosso anello al dito e io quando capitava non facevo che guardare quel particolare. Mi colpiva perché nessun uomo portava anelli e mi sembrava disdicevole che lui, uomo, andasse in giro con quel grande anello senz’ombra di vergogna o d’imbarazzo. Talvolta veniva fatto entrare in casa di qualcuno e lì dispiegava tovaglie, coperte, asciugamani, lenzuola affinché le donne potessero ammirare con più agio lo splendore di quei capi che odoravano di nuovo, quasi sempre destinati al futuro corredo delle figlie non ancora in età di maritare. Accadde una volta che quella dimostrazione si fece in casa di Caterina, la moglie di Mascarò. Sbaglio inammissibile! Col marito in galera, lei non doveva permettere a un altro uomo di mettere piede in casa sua. Dalla critica per quella grave mancanza si passò a dire che tra i due doveva esserci qualcosa. Il nome di Caterina cominciò a stare sulla bocca delle vicine più sboccate, per poi passare a quella della altre.
Quando ci fu l’amnistia e Nino uscì prima di aver scontato la pena per intero, trovò tovaglie nuove in casa; ne chiese conto e Caterina gli disse di averle comprate risparmiando sui soldi che le dava sua madre per aiutarla in quel periodo disgraziato. Ma Nino cominciò a sospettare, e i suoi sospetti non tardarono a incontrarsi con le voci che correvano sul conto della moglie, fino a quando qualcuno gli soffiò che mentre lui era in galera era stata vista uscire dall’albergo dove pernottava l’ambulante.
Forse l’essere ancora fresco di gattabuia lo indusse a temporeggiare in riflessione, ma intanto prese i figli e andò a vivere dalla madre.
Passa qualche mese e la madre gli fa un ragionamento.
“Senti, figlio mio, sei uscito ora di galera e hai tre figli piccoli, in queste condizioni chi speri di trovare? Solo una donna compromessa si può mettere con te. E allora: bagascia per bagascia, tieniti questa, che è la madre dei tuoi figli, te li cresce e serve te”.
Lì per lì Nino sembrò persuaso dalle parole della madre. E forse continuò a filare per conto suo il ragionamento. D’altra parte, avrà pensato, cosa dice l’antico? “Amuri di mamma e sirvimentu di muglieri”. E se lo dice l’antico vuol dire che l’aveva ben capito che il mondo tira avanti in questo modo. Non è una disgrazia capitata solo a me, Nino La Gatta, ma tutte le donne sono buttane di natura, e l’uomo che può farci? Cerca di frenarle con la forza e la paura. Soltanto la madre può dare amore, la moglie è una comodità come le altre. Amore e comodità: guai a scambiare le due cose come è capitato a me.
Con questi pensieri in testa, tornò a vivere con la moglie. Ma quel ragionamento non aveva soppiantato del tutto l’ossessione. Nella sospettata infedeltà di Caterina, Nino aveva trovato la ragione al suo malessere d’esistere, e tutti gli sbalzi d’umore al negativo, in lui, andavano a connettersi con quella fissazione. Così, a volte succedeva che all’ora di cena o quando la canicola svuotava la vaneddra, da quella casa si levassero grida e volassero bottiglie con tonfi conclusivi di porte sbatacchiate. Un’unica frase, allora, correva per tutto il vicinato: “Oi Mascarò havi la musca”, e si voleva alludere all’agitazione che prendeva buoi e muli tormentati delle mosche cavalline.
La quiete ritornò quando Nino prese il treno per la Svizzera. La sua fu una partenza tanto discreta quanto chiassosa era stata la sua presenza nella vaneddra.
“E che volete,” sentii dire tempo dopo a un vecchio che prendeva il sole con altri coetanei, “gli americani hanno il divorzio e noi qua ci arrangiamo con l’emigrazione.”
“Iiihhh…” fece un altro vecchio “quanti ce ne sono che lasciano la moglie con la scusa di emigrare per lavoro!”
Nel suo modo d’intendere l’amore per la moglie, Nino aveva sognato d’essere l’eroe cavalleresco di una cultura che ammira nell’onore il proprio zenit. Per questo nobile ideale persino la prigione gli era sembrata una vacanza. Ma il destino ingrato ne aveva fatto un uomo torvo e taciturno, e non c’è cosa più triste che l’essere vittima ingloriosa della propria idea.
Una volta emigrato, non lo si vide più tornare, neanche per Natale quando gli emigranti scendevano a frotta per trascorrere la festa con i propri cari.
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