Il
primo nome che pronuncia, se gli si
chiede dei suoi amori letterari giovanili, è Kafka. Poi si scoprono le analogie che lo
legano all'autore della Metamorfosi,
a cominciare dallo pseudonimo con cui
ha scelto di siglare i suoi quadri: GiEffe,
due lettere che sono le sue iniziali anagrafiche.
Ma l’analogia più impressionante con lo scrittore di Praga è il rapporto con l’arte, vissuto nella discrezione del privato, al netto dall'ansia di successo, indifferente ai gusti commerciali e praticato come respiro necessario di una vita perennemente insoddisfatta dell’arida finzione della norma quotidiana.
Dipingere tra le pareti del minuscolo studiolo che dall'alto domina il mare di Pozzallo,
nelle ore libere dai pesi del lavoro di architetto, è stata per GiEffe una specie di ascesi irrituale, irresistibile approccio
a quella dimensione dove nasce il dialogo
con la parte più autentica di sé.Ma l’analogia più impressionante con lo scrittore di Praga è il rapporto con l’arte, vissuto nella discrezione del privato, al netto dall'ansia di successo, indifferente ai gusti commerciali e praticato come respiro necessario di una vita perennemente insoddisfatta dell’arida finzione della norma quotidiana.
Il risultato sono centinaia di oli, acrilici, disegni,
acquerelli di cui è fatta la traiettoria
artistica che attraversando anni
di ricerca lo porta a questa prima
personale: una vittoria sulla titubante timidezza, tipica di chi
ha fatto dell’arte un vertice ideale, un
assoluto da cui si rimane tagliati sempre
fuori perché, come scrive
Ungaretti, “dalle nostre mani non escono che
limiti”. L’opera compiuta, per
l’interiorità del suo artefice, diventa
l’avanzo tangibile di un’esperienza consumata nel dramma della sua
realizzazione. E’ il paradigma psicologico
esistenziale in cui finisce per
ritrovarsi (impigliato?) il ricercatore solitario, l’artista segreto e sconosciuto ai più, qual è
stato per decenni GiEffe, che oggi con
la sua uscita in pubblico ci permette il godimento di paesaggi che si guadagnano subito l’attenzione per la magia
del colore il cui segreto egli dimostra indubbiamente di possedere.
I
dipinti di cui l’esposizione si compone
coprono gli ultimi due anni di attività ed eleggono a soggetto la vegetazione
le pietre le stagioni di una terra che, parafrasando il più noto titolo di Raffaele Poidomani, si
presenta generosa di carrube e di pittori.
Sulle orme di illustri predecessori come
Piero Guccione e Salvatore Fratantonio, il cui magistero a tratti emerge negli
scorci, GiEffe svolge la sua versione del paesaggio ibleo, raggiungendo esiti
eccezionalmente suggestivi laddove campeggia il verde, un verde esteso compatto
e pulito come avviene di apprezzarlo e respirarlo dopo una rinfrescante pioggia
primaverile (Verde in pianura, Primavera,
Collina, Marzo ibleo, Campagna). La sua pennellata decisa ed incisiva
conferisce alle tele un’accentuazione cromatica di evidente matrice
espressionista.
Taluni cieli, di un cromatismo sciolto dal
dato naturalistico, nati da uno spleen
risolto nella ricerca estetica, conferiscono al paesaggio la nota che
maggiormente lo personalizza. Così in Al
risveglio e Controluce dove un
concerto di tonalità rossastre attraversato da sottili venature fanno pensare all’astrattismo
di fantasie cromatiche marmoree, o
in Oltre
il buio dove un cielo di fuoco levigato, incombente sull’oscura sagoma di
un rudere spettrale, evoca infernali atmosfere boschiane, o ancora in Fine dell’estate con quella compatta
massa oscura color viola che stravolge in allucinata visione la luminosità dei
campi ingialliti.
Una svolta, un cambio di pagina, un
lasciarsi dietro l’approccio espressionista, in questo ciclo creativo, si evidenzia nell’ultima fase con dipinti che
potremmo definire apollinei sia per
la lievità del tratto sia per il conformarsi dell’artista all’ordine morfologico
e cromatico degli elementi. S’inverte il rapporto tra l’io e la natura. E quanto
più il primo rinuncia alla propria interferenza plasmatrice e visionaria ,
tanto più la seconda appare nella luce ferma della sua oggettività.
Alla creazione subentra la contemplazione,
al movimento lirico la staticità metafisica. La campagna, disseminata di carrubi
e casolari, sezionata da geometrie
pietrose, è colta dall’alto, a una
distanza che rimpicciolisce tutto quanto
è a misura d’uomo senza eccezione alcuna, compresa la soggettività di chi la osserva.
Il mio albero, Spazi iblei,
Campi iblei, Paesaggio ibleo sono alcuni
titoli di quest’ultimo gruppo di quadri. La ripetizione quasi ossessiva dell’aggettivo
“ibleo”, come non fossero già sufficienti i dati connotativi dei paesaggi, fa di questi acrilici un atto d’amore, l’espressione di un sentimento di fiducioso abbandono alla propria terra
intesa e vissuta come una madre, in seno alla quale, per dirla con Leopardi, il
pensiero si annega e l’io, perduti i panni dell’ illusoria onnipotenza, naufraga in un mare di dolcezza.
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