mercoledì 22 luglio 2015

DIEGO GUADAGNINO, L’anima e i colori nel mondo di GiEffe

Il primo nome che pronuncia, se gli si chiede dei suoi amori letterari giovanili, è Kafka. Poi si scoprono le analogie che lo legano all'autore della Metamorfosi, a cominciare dallo pseudonimo con  cui ha scelto di siglare i suoi quadri: GiEffe, due lettere che sono le sue iniziali anagrafiche.
Ma l’analogia più impressionante con lo scrittore di Praga è il rapporto con l’arte, vissuto nella discrezione del privato, al netto dall'ansia di successo, indifferente ai gusti commerciali e praticato come respiro necessario di una vita perennemente insoddisfatta dell’arida finzione della norma quotidiana.
    Dipingere  tra le pareti del minuscolo studiolo che dall'alto domina  il mare di Pozzallo, nelle ore libere dai pesi del lavoro di architetto, è stata per GiEffe una  specie di ascesi irrituale, irresistibile approccio a quella dimensione dove nasce il dialogo con  la parte più autentica di sé.
  Il risultato sono  centinaia di oli, acrilici, disegni, acquerelli di cui è fatta la traiettoria  artistica  che attraversando anni di ricerca  lo porta a questa prima personale:  una vittoria sulla  titubante timidezza, tipica  di  chi ha fatto dell’arte un vertice ideale,  un assoluto da cui si rimane tagliati sempre  fuori perché, come  scrive Ungaretti, “dalle nostre mani non escono che  limiti”. L’opera  compiuta, per l’interiorità del suo artefice,  diventa l’avanzo tangibile di un’esperienza consumata nel dramma  della sua  realizzazione.  E’ il paradigma psicologico esistenziale in cui finisce per  ritrovarsi (impigliato?) il ricercatore solitario, l’artista  segreto e sconosciuto ai più,  qual  è stato per decenni GiEffe,  che oggi con la sua uscita in pubblico ci permette il godimento di paesaggi che  si guadagnano subito l’attenzione  per la magia  del colore il cui segreto egli dimostra indubbiamente di possedere.
    I dipinti di cui l’esposizione  si compone coprono gli ultimi due anni di attività ed eleggono a soggetto la vegetazione le pietre le stagioni di una terra che, parafrasando il  più noto titolo di Raffaele Poidomani, si presenta generosa di carrube e di pittori.
    Sulle orme di illustri predecessori come Piero Guccione e Salvatore Fratantonio, il cui magistero a tratti emerge negli scorci, GiEffe  svolge la sua versione  del paesaggio ibleo, raggiungendo esiti eccezionalmente suggestivi laddove campeggia il verde, un verde esteso compatto e pulito come avviene di apprezzarlo e respirarlo dopo una rinfrescante pioggia primaverile (Verde in pianura, Primavera, Collina, Marzo ibleo, Campagna). La sua pennellata  decisa ed incisiva conferisce alle tele un’accentuazione cromatica di evidente matrice espressionista.
   Taluni cieli, di un cromatismo sciolto dal dato naturalistico, nati da uno spleen risolto nella ricerca estetica, conferiscono al paesaggio la nota che maggiormente lo personalizza. Così in Al risveglio e Controluce dove un concerto di tonalità rossastre attraversato da sottili venature fanno pensare all’astrattismo di  fantasie cromatiche marmoree, o in  Oltre il buio dove un cielo di fuoco levigato, incombente sull’oscura sagoma di un rudere spettrale, evoca infernali atmosfere boschiane, o ancora in Fine dell’estate con quella compatta massa oscura color viola che stravolge in allucinata visione la luminosità dei campi ingialliti.  
    Una svolta, un cambio di pagina, un lasciarsi dietro l’approccio espressionista, in questo ciclo creativo,  si evidenzia nell’ultima fase con dipinti che potremmo definire apollinei sia per la lievità del tratto sia per il conformarsi dell’artista all’ordine morfologico e cromatico degli elementi. S’inverte il rapporto tra l’io e la natura. E quanto più il primo rinuncia alla propria interferenza plasmatrice e visionaria , tanto più la seconda appare nella luce ferma della sua oggettività.
   Alla creazione subentra la contemplazione, al movimento lirico la staticità metafisica. La campagna, disseminata di carrubi e casolari, sezionata  da geometrie pietrose, è colta dall’alto,  a una distanza  che rimpicciolisce tutto quanto è a misura d’uomo senza eccezione alcuna, compresa la  soggettività di chi la osserva.
    Il mio albero, Spazi iblei, Campi iblei, Paesaggio ibleo  sono alcuni titoli di quest’ultimo gruppo di quadri. La ripetizione quasi ossessiva dell’aggettivo “ibleo”, come non fossero già sufficienti i dati connotativi dei paesaggi,  fa di questi acrilici un atto d’amore,  l’espressione di un sentimento  di fiducioso abbandono alla propria terra intesa e vissuta come una madre, in seno alla quale, per dirla con Leopardi, il pensiero si annega e l’io, perduti i panni dell’ illusoria  onnipotenza, naufraga in un mare di dolcezza.





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