I filosofi della Quarta Sezione
di Diego Guadagnino
pubblicato su "Il Sole 24 ORE",
il 24 agosto 2014
Nella Sicilia corrosa e svilita dal malaffare, dalla cattiva politica e dalla mafia, furiosa di interesse privato e indifferente al bene comune, sopravvive e resiste una Sicilia razionale e partecipe, operosa, capace di bellezza, ironia e felicità. Ma così marginale nella quotidiana sconfitta dell'intelligenza che non ha saputo organizzare una sua narrativa. Perché in Sicilia i linguaggi della scrittura sono ancora la misura del cambiamento e nello stesso tempo un tic nervoso, il cortocircuito tra lingua e dialetto. In Sicilia, spesso più che altrove, la narrazione continua a informarci anche sui progressi dell'omologazione e sulla quota di consapevolezza di una società. E la scrittura di Diego Guadagnino, penalista del foro di Canicattì, Agrigento, nel romanzo I filosofi della Quarta Sezione mette la penna proprio sulla ferita scoperta della lingua narrativa dei siciliani.
1985. A Cabiria, immaginaria cittadina dell'entroterra, ancora vivace di contraddizioni tra civiltà contadina, modernità di speculazione edilizia e comitati d'affari, il geometra Calogero Vinci guida una resistenza civile di "pensieri" a capo di una sezione non riconosciuta dal Pci locale. Icone della Quarta sezione sono Marx, Mao e Spinoza. È il filosofo olandese, la sua etica, che detta la pacata ma intransigente opposizione ai luoghi comuni, ai privilegi di casta, alla politica delle clientele, a una società organizzata come sistema organico agli affari di pochi.
Guadagnino con sollecitudine e ironia accompagna il geometra lungo la Sicilia rurale delle trazzere per orti e campagne abbandonate, a misurare confini, a districare antiche liti di possesso e usucapione, visure catastali, piani regolatori transitori che in Sicilia assumono caratteristiche perenni, sino alla sera, quando svestiti i panni della professione intesse lunghe lettere con i colleghi di sezione perché «la scrittura è disciplina intellettuale e sollecita il pensiero». È questa Sicilia doppia che racconta Guadagnino, sporca di terra e odorosa di inchiostro, di scaffali dell'usato, di pergamena, sospesa tra la rarefatta severità delle leggi, sin troppo languide verso i potenti, e il rigore del ragionamento filosofico costretto a misurarsi con una Sicilia sempre sfuggente, contraddittoria sino al collasso. Un tempo definita pirandelliana.
Guadagnino riesce a muoversi tra più registri con ammiccante e divertita leggerezza, senza rinunciare al peso di una irriducibile, amara, Sicilia. L'inflessibile Calogero Vinci, nume tutelare di etica e verità a Cabiria, è accusato di falsa testimonianza in merito a un terreno di un aristocratico trasferitosi a Palermo per studi sul paranormale e rivendicato da un bracciante per usucapione. Il geometra ha giurato che quel terreno in passato non è mai stato lavorato. Altri testimoni confermano il contrario. Per la prima volta Calogero Vinci si troverà schierato contro gli "ultimi" della sua terra in nome della verità. Dietro l'accusa, il sistema degli affari. Per uscirne servirà intelligenza e originalità di pensiero. Una storia di provincia minima, una ragnatela di personaggi disegnati dal vero, precisi, riconoscibili, colti al tramonto della cultura contadina e affacciati su una modernità magmatica e indecifrabile, drammatica perché coniugata solo come profitto su tutto e contro tutti. La qualità narrativa di Guadagnino riconsidera costruzioni linguistiche, toni e umori siciliani che sembravano eclissati dalle laceranti, sperimentali, scritture post stragi del '92. È una narrativa piana quella di Guadagnino, ordinata, conseguente, a tratti quasi ottocentesca, a volte ingenua. Ma oggi sembra uno sguardo fuori dai luoghi comuni, dalle "maniere" di scrivere di Sicilia troppo attente alla superficie di una gergalità destinata a evaporare. Una lingua antica, rigorosa, per tentare di dare voce al Meridione, oggi come ieri, marginale, confuso, affannato.
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