Con questa sua ultima fatica dedicata al
barone Lombardo, Gaetano Augello offre occasione di riflettere su un canicattinese illustre, al
quale fino adesso è toccato lo strano (e ingrato, considerando le grandi cose
che ha fatto per la nostra città) destino di una scarsa attenzione da parte di ricercatori e studiosi locali.
La Sicilia,
si sa, è terra di contrasti che la storia traduce in contraddizioni. I primi appartengono alla natura, dove al paesaggio
mutevole e ridente della costa si contrappone l’austera aridità dell’entroterra;
le seconde brulicano nelle vicende umane, covano nell’intimità dei siciliani e
confliggono nella cultura che le esprime.
Così,
nell’accostarsi alla figura del barone Francesco Lombardo non si può non cogliervi la vivente negazione di quello che sostiene Giuseppe
Tomasi di Lampedusa in uno dei dialoghi più celebri del suo romanzo: quello tra don Fabrizio e Chevalley. “In Sicilia
non importa far male o far
bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di
‘fare’…Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed
essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare…” Questa è l’idea madre da cui
nascono tutte le altre convinzioni del
Principe Salina. Ma basta guardare nella
vita del nostro barone per rendersi conto che l’autore del Gattopardo ha indebitamente e
indistintamente attribuito ai siciliani quel misto di fatalismo musulmano e di stanchezza
aristocratica che la sua casta aveva portato a sistema di pensiero.
Il barone Lombardo
non solo elesse il ‘fare’ a
primaria norma igienica di vita, ma lungi dal patirne astio, condanna o disapprovazione ne ricevette
consenso unanime che diventò plauso in tantissime occasioni. Le foto dei suoi
funerali ritraggono un fiume di folla enorme, come non se ne vede in nessun
altro analogo documento di memorabili eventi canicattinesi. Dietro il feretro
non c’erano soltanto i suoi pari ma
tutta una popolazione, che lui vivo era stata raggiunta e beneficiata dal suo
operare .
Fino a
qualche decennio fa era ancora possibile ascoltare dalla viva voce dei contadini le innovazioni apportate da don Ciciu Lummardu nella tecnica e negli
usi agricoli locali. Prima di lui, raccontavano i vecchi, la coltivazione delle
graminacee (frumento, orzo), che dava alla terra l’annuale riposo, si alternava
col pascolo; egli interruppe tale rotazione sostituendo al pascolo la semina
delle leguminose, tra le quali prevalevano le fave.
E c’era chi
lo ricordava nel giorno della transumanza del bestiame verso le terre calde
della marina, verso i feudi di Montallegro e Siculiana. Si piazzava con la
carrozza davanti la chiesa di san Diego e, come un generale che assiste alla parata,
per ore
guardava transitare greggi e
armenti incampanati, cani, asini e muli carichi di masserizie, accompagnati da
vaccari, pecorai, curatoli, garzoni, zammatari…gente con cui aveva un rapporto
diretto e spesso anche confidenziale.
Soleva
assumere i dipendenti personalmente. Si racconta di un jurnataru al quale chiese se sapesse diserbare grano, e quello
rispose pronto: “La ma zappuddra si
chiama cerba, ca scippa lu lavuri e lassa l’erba”. E lui, apprezzando la
paradossale referenza : ”Bravo, allora puoi venire da me.” Con i contadini
manteneva un rapporto libero da pregiudizi e nel suo palazzo riceveva chiunque senza
badare a distinzioni sociali, dimostrando un’apertura piuttosto eccezionale per
l’epoca, e che oggi ci ricorda un altro barone, suo contemporaneo,
che osò la stessa simpatia senza
annacquature di paternalismo verso il mondo contadino: Serafino Amabile
Guastella, il poeta di Chiaramonte Gulfi che passò la vita a raccogliere canti e parità morali dei villani della contea
di Modica.
Se aveva
un’intolleranza era di non sopportare la vista di gente oziosa o disoccupata.
Convinto che il lavoro fosse il mezzo migliore per tenere gagliarda un’economia
ne escogitava di tutti i generi. Per impedire che i braccianti sedessero nei periodi in cui non
incombeva la semina o il raccolto, li metteva a radunare pietre nei terreni e ad
alzare muri a secco ( li sipala); oppure, dopo il raccolto faceva
ammassare le stoppie per trasformarle in concime. Si evitava così il famigerato
ricorso al fuoco che quasi sempre danneggia le colture d’alto fusto. A simili
attività voleva alludere un articolo di giornale nelle immediatezze della morte,
scrivendo che “in epoche tristi di disoccupazione e di miseria, il Barone
Lombardo trovava modo di occupare la povera gente nei più svariati e meno
urgenti lavori della sua vasta azienda.”
Praticò
largamente il paraspolo, antico
istituto agrario (dal greco bizantino parà
spòros) mediante il quale si
concedeva un appezzamento di terreno già seminato a un contadino. Nella maggior
parte dei casi si trattava di contadino povero, che non possedeva bestie e
compiva da sé le successive lavorazioni fino al prodotto
finale (F. Renda, Bernardo Tanucci e i beni
dei gesuiti in Sicilia, Roma, 1974, p. 113). Tra le forme di contratto agricolo,
questa risultava una delle più vantaggiose per il conduttore, che non pagava
gravate d’interessi le spese anticipate per le sementi. Si aggiunga che la
gestione in proprio dell’azienda eliminava l’intermediazione parassitaria del
gabellotto, detestabile figura di cui si avvaleva gran parte della nobiltà
terriera per non distogliersi da una vita
goduta nell’ozio più rigoroso.
Nella ricerca
di nuove forme di collaborazione tra capitale fondiario e lavoro, non mancò d’incoraggiare
le cooperative contadine. “Il terreno ce lo diede in affitto il barone
Lombardo, che è una persona squisita
oltre ogni dire, e che ci anticipò anche il denaro” riferisce il socio di una
cooperativa, in una dichiarazione raccolta dall’inchiesta Lorenzoni (G.
Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle
condizioni dei contadini nelle province meridionali e della Sicilia, vol. IV, Roma,1910).
A osservare con attenzione l’immagine più nota
che abbiamo di lui, il ritratto uscito dallo studio fotografico canicattinese
Di Salvo Marsaglia poco prima della morte, si resta colpiti dalla limpidezza
dello sguardo; non traspaiono astratte lontananze, non ci sono né Pirandello né
D’Annunzio in quegli occhi, ma la pacata
concretezza di chi nel confronto con la realtà di tutti i giorni ha prosciugato
dentro di sé la marionetta umorale. Si ha la sensazione di trovarsi di
fronte a uno di quegli individui “capaci
di fare” che Gurdjieff avrebbe aggiunto al
suo capitolo di “uomini straordinari”. Il titolo baronale gli veniva tributato
dal popolo spontaneamente, senza che gli appartenesse di diritto, e senza che lui ci tenesse più di
tanto, se è vero che non brigò mai per comprarlo, come facevano taluni che
possedevano abbastanza feudi da giustificare la compravendita del blasone.
“Modello ai patrizi e rimprovero insieme” avrebbe scritto di lui con efficacia
epigrammatica il Punturo nel dedicargli un suo libro sulle decime
ecclesiastiche. Un giudizio, questo, che
l’inchiesta Lorenzoni sembra far proprio quando afferma che“ Il barone Lombardo, modesto e forte tipo
di gentiluomo di campagna, ha scritto una pagina gloriosa nella storia
dell’agricoltura siciliana, e il suo esempio dovrebbe servire da sprone a molti
altri, che seggono comodamente in città mentre nelle loro terre ci sarebbe
tutto un mondo da rifare.”
Era nato
borghese, e borghese rimase con la coerenza etica imposta da tale condizione;
una coerenza cresciuta sui valori della proprietà mai disgiunti dalla
responsabilità sociale che comporta. Aveva succhiato tali principi dalla madre, Francesca Gangitano, donna di forte tempra e
di energiche virtù, vissuta oltre un secolo, tenendo con sé le chiavi del
governo domestico fino al giorno del suo centesimo compleanno. Nell’elogio
funebre, stilato con la pompa che l’autore, tale Vincenzo Settimio De Gandolfo,
doveva ritenere d’obbligo al cospetto
della sbigottita maestà della morte,
viene definita “apprezzatrice dei beni
economici; ma elargitrice magnanima della sua
fortuna; amica; consigliera; Filosofa; Teologhessa” -due titoli, quest’ultimi, che
oggi suonano indizio d’una propensione intellettuale che non dovette passare
inosservata. Dei tre figli che nacquero da lei, solo lui le sopravvisse, e per
meno di due anni; si può dire dunque
che donna Francesca Gangitano
vide con intatta padronanza di pensiero il dispiegarsi di quasi tutta la vita
dell’illustre figlio.
Se dalla madre
aveva ricevuto il senso della vigile amministrazione improntata a precetti
cristiani, un’altra figura contribuì a dare consapevolezza democratica alla sua
indole pragmatica : fu quella di Giovanni Guarino Amella. La fortuna, nell’accezione
di caso, di evento estraneo ai calcoli del desiderio o della volontà, glielo
fece incontrare nelle vesti di volenteroso studente bisognevole di sostegno per
proseguire negli studi.
Il padre di
Guarino Amella, don Calogero Guarino, era un aromatario ( così si chiamavano allora i farmacisti), nativo di Campofranco,
che trasferitosi a San’Angelo Muxaro, per occuparsi degli interessi del Duca delle
Grazie, vi aveva conosciuto Giuseppa Amella, sorella di don Marco, arciprete
del paese. L’aveva sposata e si era stabilito definitivamente nel posto.
Giovanni, per non lasciare estinguere il ramo materno, volle aggiungere al
proprio cognome quello della madre.
Quando il
barone Lombardo accetta di sostenerlo fino alla laurea, pur conoscendo la
vocazione progressista del giovane non sa quali potenzialità intellettuali urgono
nel suo animo. Guarino Amella, che partecipa al movimento dei Fasci, proclamato
lo stato d’assedio da Crispi, diventa un latitante che trova rifugio e protezione
nei possedimenti del barone. Sono anni in cui la Sicilia è attraversata da
ondate di rivendicazioni popolari; operai e contadini cominciano a
organizzarsi; la plebe diventa classe con una sua coscienza politica, con i
suoi partiti e una cultura che ripensa il mondo alla luce delle nuove idee di
riscatto. E Giovannino vive nel crogiolo di quella trasformazione sociale. Ci
si sarebbe aspettati che il ricco proprietario terriero, per “ideologia di
classe”, in realtà un coagulo di interessi materiali camuffati da “idee”,
prendesse le distanze dal giovane che mette in discussione l’ordine vigente.
Invece tra i due nascerà presto una perfetta simbiosi operativa. Non si sa con
che occhio i ricchi di allora vedessero questa opzione filantropica del barone.
Ma, tanto per darne un’idea, trasportando il fatto a tempi più vicini, era come
se un agrario si fosse messo a mantenere agli studi un militante di Lotta Continua.
E questo dà cognizione e misura di quanto egli fosse, come l’avrebbe definito in
seguito Paolo D’Antoni, “uomo di larghi
sensi liberali e spirito schiettamente democratico”.
In don
Giovannino, così egli chiamò il suo pupillo per tutta la vita, trovò il collaboratore
che lo rappresentava presso ministri e parlamentari della capitale, tenendolo
puntualmente aggiornato sugli esiti
delle missioni affidategli. Esiste una fitta corrispondenza con lettere
spedite da Palermo, da Roma,
perfino da Parigi, da dove il giovane lo
relaziona sull’esposizione universale del 1900: “ …se si vogliono “ gli scrive
“non dico osservare ma soltanto vedere tutte le manifestazioni dell’ingegno e
delle attività umane esposte, allora non
c’è tempo che basti…” E considerando l’interesse del barone per le novità
tecnologiche da impiegare in agricoltura, aggiungeva “Il visitatore rimane
spesso sbigottito innanzi alle macchine che con straordinaria precisone e
perfezione compiono i più complicati e
difficili lavori”. Ma altre ce ne sono, di lettere, in cui don Giovannino lo
consiglia sul comportamento da tenere verso i contadini, che “qualcun altro
vorrebbe attrarre” nella propria sfera d’influenza.
E’ stato scritto che era un conservatore. Ma
si tratta di un giudizio non convalidato
da nulla nel concreto. Il giornale L’Ora
di Palermo, nel dare notizia della sua morte , il 22 gennaio 1910, scriveva che “Sebbene fosse un rigido conservatore,
pure non disdegnò di accomunarsi agli uomini di parte popolare, a sostenerli
gagliardamente, perché l’Isola nostra avesse una più luminosa dimane.” E’ una affermazione
intrinsecamente ossimorica, illogica, e soprattutto in conflitto con quello che
riscontriamo nei fatti e nelle carte che parlano di lui. Come faceva a essere un rigido conservatore e nello
stesso fare politica per interposta persona attraverso Giovanni Guarino Amella?
Definirlo tale sarà stato certamente un errore
dell’estensore del coccodrillo, dovuto a disinformazione e al facile automatismo
ricco=conservatore. E sarà bastato che qualche “storico”, distratto e
irriflessivo, copiasse di peso quella frase, per consegnare alla memoria una simile
stonatura nel tessuto della sua reale biografia. D’altronde la politica è azione pubblica, è praxis sotto gli occhi di
tutti, e perciò non può dare adito a
equivoci così macroscopici e grossolani.
Preferendo
dedicarsi all’amministrazione della sua azienda, non fece politica
nell’accezione corrente della parola, non
occupò mai uno spazio attivo all’interno di un partito. Se si espose in prima
persona, fu in due battaglie interpartitiche
e di stampo decisamente laico e riformatore: quella per la revisione
delle circoscrizioni territoriali e quella per l’abolizione delle decime regie
siciliane.
La prima
questione aveva risvolti pratici così onerosi da essere molto sentita dagli abitanti
di tutti quei comuni vessati da un assetto amministrativo che nella
sostanza lasciava in piedi il dominio delle città demaniali sui quei centri che
da semplici agglomerati feudali si erano evoluti in città fiorenti e popolose.
Tale era, per esempio, il rapporto tra Naro, città demaniale, battezzata la Fulgentissina da Federico II, ma
rimasta demograficamente atrofizzata, e Canicattì, diventata l’epicentro dello
sviluppo economico della zona con un incremento demografico che aveva raggiunto
i 25.000 abitanti nel 1897, rispetto ai 10.000 di Naro. I rispettivi territori
però restavano di cinquemila ettari di Canicattì contro i quattordicimila di
Naro. La conseguenza di tale situazione era che i canicattinesi versavano alle
casse del comune limitrofo tributi che
non avevano ritorno sul loro territorio. Di fronte alla tenacia conservatrice dei comuni privilegiati, il barone
Lombardo, nel 1904, tessendo una rapida e fitta rete di rapporti con i sindaci dei
comuni interessati alla revisione, promosse la nascita della Lega Siciliana per la Riforma delle
circoscrizioni Territoriali. Nell’assemblea costituente, tenutasi nel salone
del suo palazzo di fronte la Matrice, venne eletto presidente per acclamazione. In tale veste pochi mesi dopo indisse un
convegno a Roma al quale parteciparono i sindaci dei “150 comuni diseredati” e
da cui partì una mobilitazione che coinvolse tutta l’Isola con una carica motivazionale che dà idea non approssimativa del suo carisma.
Il comitato d’agitazione di Mirabella Imbaccari uscì con un comunicato in cui
tra l’altro si leggeva “ Il nobile e grandioso appello lanciato dal Barone
Lombardo, meritatissimo Presidente della nostra Lega, ha destato, in ogni cuore
che soffre, il più grande entusiasmo patriottico. Da tutti, massime dai poveri
tartassati di miserie e di tasse, volano caldi voti per la soluzione del barbarico sistema e generose benedizioni
partono per la veneranda figura del
Presidente e per i suoi generosi sacrifizi.”
Di vera e propria ovazione invece si può
parlare in occasione del suo rientro a Canicattì da Roma, dove in qualità di
presidente della Lega contro le regie
decime siciliane s’era incontrato
con vari ministri e con Giolitti, per esporre le ragioni che legittimavano la chiesta abolizione del
balzello.
Il
consiglio comunale di Canicattì, nella seduta del 26 gennaio 1905, volle
mettere a verbale “un plauso all’opera titanica dell’Illustrissimo Patriotta
Signor Barone Francesco Lombardo Gangitano a che la proposta di legge di abolizione delle Decime Agrigentine sia
discussa ed ammessa dal Parlamento, recando grandi vantaggi all’agricoltura
della nostra provincia.” Esiste, presso la Fondazione Guarino Amella, che
conserva migliaia di documenti che lo riguardano, un opuscoletto, un “omaggio”
scritto, che in quell’occasione la
cittadinanza gli tributò per iniziativa del “giovine Antonio Greco fu Calogero”; esso contiene una
lettera solenne nel saluto: “ Salve, o illustre filantropo…Salve, o generoso!
Accogliete oggi l’omaggio dei vostri
concittadini, senza distinzione di classe e di partito, dal ricco al povero,
dal sacerdote al socialista…” Segue un
sonetto ( sicuramente parto della fantasia del promotore) in cui il poeta
impiega le prime due quartine per rivolgersi a Febo immortale chiedendogli cosa
mai stia succedendo alla sua dorata cetra da essere percorsa da così tanta vita. Nelle terzine successive il divo Apollo gliene spiega la ragione ed è
“che in quest’almo giorno/ dall’alma Roma eccelso e caro duce/ qui sen ritorna
in dolce suo soggiorno.” Lettera e sonetto sono seguiti da una raccolta di
firme (che Augello ha contate e dice che sono 190) suddivise per settori: il
Clero, Civili, Rappresentanza delle Scuole, Rappresentanza della Società,
Cittadini. Retorica a parte, i documenti provano la popolarità e l’affetto di
cui godeva il nostro barone tra la gente di Canicattì in un’epoca in cui di simpatia
per i ricchi sappiamo ne circolasse più niente che poca.
Quella contro le decime regie siciliane fu una
lotta lunga e costellata di dotti richiami storici e giuridici. Materia del
contendere erano le decime dovute alla mensa vescovile agrigentina dai proprietari di terreni della
diocesi. Veramente erano state abolite con decreto garibaldino dell'ottobre
1860, ma quando non c’è volontà di applicare una legge si ricorre alla sua
interpretazione, e così la curia di Girgenti era riuscita a ottenere alcune
sentenze che dichiaravano la decima non inclusa nelle disposizioni ablative. Da
lì era nata un’annosa querelle in cui
si vedevano i sostenitori da un lato e i gli oppositori dall’altro darsi reciprocamente
del latifondista. “Quest’onere oggi non
grava che su pochi gaudenti, su pochi latifondisti, vera cancrena
dell’agricoltura…” scriveva un periodico diocesano, ma da parte opposta si rispondeva che il vero
latifondista era Monsignor Vescovo che si ostinava ad esigere il pagamento della decima da oltre
50 mila soggetti sparsi per tutta la diocesi. Erano forse tutti latifondisti? La battaglia si estese presto all’intero
territorio della Sicilia, unica regione in cui il tributo, abolito di fatto e
di diritto nel resto del Paese, lo si voleva ancora in vigore. Il barone
Lombardo, eletto presidente della Lega
contro le regie decime siciliane, divenne facile bersaglio di quanti
accusavano il movimento di essere ispirato da grossi feudatari. “A migliore
intelligenza del dietroscena possiamo assicurare che il presidente del Comitato
contro le decime , il barone Lombardo è uno dei più grossi feudatari, gravato
dalle decime per più di 20000 lire…” si
ribadiva da parte ecclesiastica. Ed era evidenza che non poteva essere negata.
Come oggi non si può negare che il barone aveva deciso d’impegnarsi in quella battaglia dopo che gli era stato
notificato l’atto di interpello e messa in mora per il pagamento delle decime
“di frumento e orzo” dovute, con gli arretrati degli ultimi cinque anni, e per
i feudi ricadenti in territorio di
Caltanissetta, Serradifalco e Sommatino. L’accusa restava però un’argomentazione propagandistica di supposta facile presa
emotiva, perché la resistenza includeva tanti piccoli proprietari e per di più
anche cattolici sinceri. In tale eterogenea composizione del movimento il
barone Lombardo occupava una posizione laica, eleggendo suo portavoce e
segretario Giovanni Guarino Amella che ne sosteneva le ragioni attraverso vari articoli su giornali finanziati dallo stesso
barone.
L’atteggiamento del barone Lombardo nei
confronti della religione fu quello del borghese laico e illuminato che si pone
al di là dei precetti della dottrina cattolica “ non per debolezza della carne; ma perché è
convinto di essere dalla parte della ragione. Sa quel che vuole, perciò è in
diritto di volerlo. Anch’egli vuole l’ordine, un ordine nuovo, che nascerà
dagli sforzi del suo ceto e che la Chiesa non potrà riconoscere.” (B. Groethuysen,
Origini dello spirito borghese in Francia,
Torino, 1949, p.315). D’altronde anche nell’occasione della messa all’asta dei
beni ecclesiastici confiscati dopo l’unità d’Italia, egli, come tanti altri
ricchi proprietari terrieri dell’epoca, vi partecipò e comprò regolarmente,
senza porsi problemi di coscienza e senza essere minimamente toccato dalle voci
di scomunica messe in giro con lo scopo evidente di scoraggiare la partecipazione
alle vendite pubbliche. La cospicua donazione fatta nel 1909 all’ospedale di
Canicattì, che oggi porta il suo nome, va letta all’interno di
quell’umanitarismo laico e liberale che sollecitava le coscienze delle classi
colte europee di allora. Nato il 14 febbraio 1835, egli è figlio di quel
periodo che lo storico inglese Eric Hobsbawm ha definito “il trionfo della borghesia”. Le
sue convinzioni di uomo e di imprenditore
sono impregnate di sano ottimismo, la sua azienda si avvale di quanto la
tecnologia più avanzata possa offrire per
l’efficienza nei lavori e la maggiore resa dei prodotti. La sua vita sembra il
compendio completo e riuscito del vangelo filosofico di Auguste Comte: c’è la fede
nella scienza, il culto del progresso, la fiducia nell’uomo, la pratica della
solidarietà, la vocazione filantropica. Sotto la luce della costellazione
positivista appare redento anche l’ancestrale senso della proprietà che si
porta dentro e che diventa strumento di
promozione del benessere comune. Una
distanza siderale divide quest’uomo
dalla cupa ossessione della roba che proprio in quegli anni, a
centoquaranta chilometri da Canicattì, va
descrivendo in romanzi e novelle un
altro siciliano che si chiama Giovanni Verga. Altro siciliano, altra contraddizione,
è il caso di dire.
L’impegno
pubblico per il barone Lombardo, proprio in virtù dell’interesse personale che
lo spingeva, è stato in realtà una secondaria propaggine della sua attività
principale, che rimase quella di imprenditore agricolo. Dalla zootecnia, dove si distinse per
l’allevamento dei cavalli, all’enologia ,
agli oleifici, alla coltivazione razionale del mandorlo, alla costruzione di
case coloniche per i contadini, egli non tralasciò nulla che un agricoltore non
potesse compiere o perfezionare nell’esercizio delle sue funzioni. La sua azienda
veniva citata e additata come modello d’avanguardia in tutto il Mezzogiorno. “La
fortuna lasciata dal Barone Lombardo” scrisse La Provincia Nuova alla sua morte, avvenuta il 21 gennaio 1910, “ è
in gran parte opera sua, della sua non comune attività, dei metodi moderni di
coltura…”
A seconda del livello evolutivo di chi la
possiede, esistono diverse categorie di ricchezza. C’è quella del bruto cumulo di energia, che nel più
volenteroso sforzo finalistico diventa mezzo
per
fare altra ricchezza; e c’è quella che fiorisce nel bello gratuito
dell’arte. Il Rinascimento fu un miracolo dello spirito prodotto e assecondato da questo tipo di ricchezza, al
punto che il committente di un’opera ne era considerato il padre più dello
stesso artista. Il barone Lombardo ebbe sensibilità estetica ed ebbe anche modo
di mostrarla traducendola in
mecenatismo, il mecenatismo della committenza. Opera di questa sua intraprendente
sensibilità è la villa più significativa che la classe aristocratico-borghese
abbia dato al nostro territorio: Villa Firriato. Realizzata nel 1897 dall’architetto
Ernesto Basile, che gli fu amico personale, per la cinta collinare di Bardaro
che, vicinissima, gli fa da sfondo a est e la visione in lontananza dei monti
di Sutera e Cammarata, sulla quale s’apre a sud, per la perfetta armonia tra le
forme lineari in pietra e il giardino che le circonda, rimane un gioiello
suggestivo e negletto del liberty in Sicilia.
Tranne Villa
Firriato, fino a qualche anno fa saccheggiata dalle incursioni continue di vandali, e da poco
parzialmente riattivata, di quello che lui ha realizzato, dalle strade
alle masserie alle case coloniche, oggi
non restano che ruderi su cui continua
ad accanirsi l’inclemenza del tempo e dell’incuria . I suoi successori hanno preferito ubbidire alle massime del Principe
Salina, secondo cui “…il peccato che noi siciliani non perdoniamo è semplicemente
quello di ‘fare’ ”; e così loro hanno scelto di non peccare. La Sicilia, lo si
sa, è terra di contrasti…
Ma la figura
del barone Lombardo si profila così nettamente scolpita da una concezione
positiva e pragmatica del vivere che non può non indurre a rivisitare i
fondamentali della cultura siciliana. Bisogna subito dire che la chiamata in
causa dei suoi eredi o successori in relazione allo stato di abbandono dei suoi
beni, non implica necessariamente l’identificazione di una responsabilità di
carattere personale. Troppo semplice sarebbe chiudere la nostra riflessione
entro tali termini. In Sicilia i trapassi bruschi e repentini tra eros e
thanatos, tra cosmos e caos, tra splendore
e miseria sono all’ordine del
giorno, scandiscono un destino territoriale che come una vecchia pendola
oscilla tra il sì della luce e il no
dell’ombra. Le terre del barone oggi sono un’isola di erbacce e di squallore in mezzo a una campagna che nelle
sue continue metamorfosi colturali ha
fatto confluire fiumi di denaro su Canicattì. Ma le trasformazioni intensive si sono arrestate sul confine di quei feudi
che ora sembrano scontare l’antica magnificenza in una specie d’infernale
contrappasso. Ed è una condanna che
profusamente trova il suo riscontro teorico nei modi o nei sistemi in cui la
Sicilia è stata pensata negli ultimi centocinquant’anni. Dall’unità d’Italia in
su i grandi romanzieri siciliani sono stati i cantori dei vinti, gli analisti creativi
di una sconfitta che da storica è diventata antropologica, se non metafisica. E
dire che il movimento dei Fasci era stato salutato da Antonio Labriola come il più grande fatto del socialismo
italiano…
Durante la
stesura di queste note, compulsando l’inchiesta Lorenzoni, ci siamo imbattuti in una pagina, senz’altro lirica,
ma soprattutto presaga delle rappresentazioni che dell’isola daranno artisti e
scrittori successivi.
“Il popolo
siciliano” scrive Giovanni Lorenzoni “ offre materia di molta meditazione
all’artista ed al filosofo. La grandiosità della natura in cui vive,
ridentissima in alcune parti, sublime e tremenda in altre; qua fertile e
svariata, là squallida e monotona; le forze cieche che incombono, e pur
riposando minacciano; l’Etna e le sue eruzioni; il terremoto e il maremoto; la
prolungata siccità, le alluvioni ed i temporali
devastatori; la violenza dello snervante vento sciroccale: tutti questi
aspetti e queste forze della natura, debbono imprimere all’anima sua uno
stupore d’ammirazione che si espande in un lirismo immaginoso ed appassionato,
ed insieme uno sgomento rassegnato e fatalistico, perché ben comprende che
contro queste forze di tanto a lui superiori, pressoché vana deve riuscire ogni
opera sua.
“La storia
travagliata e tragica della Regione s’aggiunge alla natura per fare dell’anima
sua uno stromento sensibilissimo e apparentemente contraddittorio perché
complicato: pronto all’esaltazione ed alla depressione, ossequiente
all’autorità ed insieme ribelle, orgoglioso verso tutti , ma devoto fino al
sacrifizio verso chi ama, sospettoso per necessità di difesa, facile alla
protesta ma più facile alla rassegnazione, perché alieno da ogni azione
continuata e paziente; individualista, solitario, chiuso, fieramente amante
della famiglia, degli amici e dell’Isola sua.”
La notazione
che va fatta a margine di questa pagina è che, sebbene uscita dalla penna di un
continentale, tanti siciliani vi si sono rispecchiati, se non proprio in essa,
di sicuro nelle immagini e nelle idee che la fanno così viva. Il filosofo Manlio
Sgalambro, uno tra i più prossimi nel tempo, ci dato una sua Teoria della Sicilia dove tra l’altro
dice:
Per ogni isola vale
la metafora della nave:
vi incombe il
naufragio.
Il sentimento insulare
è un oscuro impulso verso l’estinzione.
L’angoscia dello stare in un’isola come modo di vivere
rivela l’impossibilità di sfuggirvi
come sentimento primordiale.
La volontà di sparire
è l’essenza esoterica della Sicilia.
Essere contraddittori non è una colpa.
Specialmente quando si vive in una realtà travagliata da forze opposte come
quella siciliana. Ma se queste forze hanno reso possibile un uomo come
Francesco Lombardo, allora possiamo ben sperare di poter resistere anche alla
tentazione del nulla.
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