Vorrei articolare questo mio intervento in punti essenziali, e provo ad
articolarlo come se volessi persuadere chi ci ascolta che la poesia di
Diego Guadagnino merita di essere ascoltata (la poesia è sempre ascolto,
sia che prenda le vie della lettura silenziosa, sia che prenda la via
della lettura di bocca):
Uno. Intanto vorrei dire che un poeta (se ho contato bene) di cinquantasei anni che pubblica il suo libro poetico (un esordio tardivo non significa che venga da tardiva vocazione) è quasi un miracolo. Di sicuro è una garanzia: primo perché significa che é incontentabile, secondo perché significa che è maturo, che ha meditato il detto oraziano, che non ha avuto fretta di apparire.
Due. Diego Guadagnino ha una sua voce, compatta e densa. Trasparente e chiara. E con questo ho già detto moltissimo. La chiarezza non è il valore, ma il valore non si esprime che attraverso di essa, diceva Pontiggia per Renard, per Daumal, per Collodi, per tutti coloro che chiamiamo "classici": una consapevolezza che muove da un presupposto: "la fede nella potenzialità enigmatica di un linguaggio chiaro". La sua poesia è per un verso parafrasabile (ancora), ma è nello stesso tempo gremita di tutta la contraddittorietà della vita, la natura drammatica della dualità (parola sua) che tende a condensarsi (concentrarsi) in unità. Ancora una volta la moderna natura dell'ossimoro (o del paradosso, se ci si rifacesse allo zen, del koan), della compresenza di verità in cozzo, in urto, in infusione.
Tre. Ho appena detto la parola "-vita". Una parola che nel testo dì Guadagnino ricorre con alta intensità. Potrei farne incetta: "il sonno della vita" (25), "E tu, vita sconvolta e sorvegliata" (28), "Dimesso il vestito della vita" (30), "nell'insonne crogiuolo della vita" (38), "nell'assoluto cuore della vita" (48), "poiché la vita è pena da scontare" (49), "I clienti che il mare della vita" (51), "il semplice mistero della vita" (53), e lascio i verbi "vivere", "vivo", e lascio anche di fare l'elenco completo delle occorrenze. Ma la frequenza é molto più che sintomatica. Significa che a contare è l'idea di entrare nella vita, di decifrarne il mistero, di coglierne le trasformazioni, o quella che Guadagnino chiama (il titolo) la "trasmutazione".
Quattro. Trasmutazione, dunque. Parola dantesca se ce n'é una (ma potrei aggiungere il verbo "vanire" che Guadagnino usa, non a caso, in un contesto di "trasmutazione": "il velo/ dipinto delle forme", in Girona, 97) Trasmutazione è parola prossima all'altra più nota e usata di "metamorfosi". In tutt'e due l'idea della mutazione in "altro" (trans-meta). La "danza delle forme'", come dice Guadagnino (34). Con un esempio, uno solo, bellissimo: "Verrà la luce per trasmutazione" (42).
Verrà la luce per trasmutazione
di quanto adesso è grumo di bisogno,
il cuore scioglierà la sua canzone
lavando la fuliggine del sogno.
Allora nell'ordito del disegno
si perderà come esile sussurro
la pena che ora muta tiene in pegno
questo giorno di nuvole e d'azzurro
Cinque. Dovremmo, a questo punto, cogliere la natura duale delle cose (Hic rodus, hic salta), di cui siamo - tutti - vittime e attori. E li (ma dovrei dire: e qui), la ricerca del varco (altra parola sintomatica) in cui consiste la nostra ricerca (la ricerca del poeta) di verità, parola segreta, parola indicibile, parola fondamentale: l'aldilà, il dietro, il sotto, l'oltre, parolette compagne, indivisibili. Fin dalla poesia "in limine" (come Gli Ossi di Montale, di cui corre qualche eco, specie nelle rime in "aglia", ad esempio il disinganno) (85), che s'íntitola Kali-Yuga (una nota che specifica: "Secondo la tradizione indù é l'Età Oscura, che è quella attuale").
Dolente in una minima dimora
scavata tra le sabbie del pensiero
la carne adula ciò che la divora
e vana la disperde nel mistero.
La muta sfera di un'eterna aurora
illumina lo spazio veritiero
nell'aldilà del senso che lavora
su forme d'ombra come fosse il vero.
La forza offende il sangue e fa precetto
graziando solamente la paura
che brulica in anfratti e per effetto
riduce questa terra a sua misura,
ne uccide l'acqua e l'erba... e maledetto
il cielo di quest'epoca ci oscura.
Vedete? Il qui e l'aldilà (del senso), vanità e consistenza, ombra e luce, realtà e mistero. E potrei continuare: silenzio e voce, fuoco e cenere, corpo e anima, paura e libertà, luce (chiarità) e buio, gioia e dolore, saggezza e follia, palpito e eterno, divisione e unità, morte e vita, contingente (tempo) e assoluto [il tempo intrappolato e il tempo liberato: La poesia (87).
E' l'anima che a se stessa si disvela
decifrando nel vissuto il suo mandàla;
l'anima che dal confine oscuro anela
liberarsi dal tempo che l'ammala.Superfluo e necessario, petalo e spina, io e Dio, limite e infinito (Leopardi, certo) e così via. Come nella poesia Degenza (80) e nell'ironico (c'è anche questo in Guadagnino) interrogativo di Leopardiana (111).
A un tempo stesso
amore e morte
serve il fioraio
con le sue scorte.
Tra l'essere
e l'apparire
sceglie
di scomparire.
Amai la vera gloria
di chi sa stare muto
e passare alla storia
senza essere vissuto.
Poi tutto si riduce
a quel racconto ameno
dell'uomo che per colpa
dei bagagli perde il treno.
I pesi che porto:
il vuoto dell'anima
l'ingombro del corpo.
Nel disegno di Dio
chi mai sarà quell'io
che vedo nello specchio di natura
diviso tra il parnaso e la pretura?
Finita la storia
ad alta tensione
ritorna con gloria
la depressione.
Che fatica,
risalire la china della vita
e scoprire alla fine che la meta
era questo ritrovarsi
alieni sul pianeta.
Sei. E qui farei una divagazione (ma mica tanto). A questo punto ho pensato (anche per il carattere profondamente morale e riflessivo della poesia di Guadagnino) all'importanza di un poeta che non so se Guadagnino abbia letto, ma che certo è tra i cruciali della prima metà del Novecento (si celebrano quest'anno i cinquant'anni dalla morte): vale a dire Clemente Rebora (magari associato a un altro poeta-pensatore come Michelstaedter). L'artiglio dell'io e l'artiglio di Dio. Dall'ipertrofia dell'ego alla sua dissoluzione, la suprema accoglienza che è fusione d'amore. Il dramma che si converte in confidenza, la ferita che si rimargina nell'abbraccio e nell'abbandono.
Sette. Sembrerà pedante, ma la poesia è anche fatta di versi e rime e metri. E' operazione per sé artificiosa, anche se di un artificio che mira a farsi dimenticare. Guadagnino non deroga (ho parlato di "classico", almeno come temperamento e tendenza). I suoi sono spesso endecasillabi, le sue rime sono quasi sempre pulite (non dei tour de force, non mirano allo shock). Sintatticamente nitidi, con qualche inarcatura non proprio frequente. Struttura che leggo come un tentativo in re (cioè nella cosa) di ordinare il caos e la contraddizione. Classico significa ben questo. Non cedere alla tentazione (avanguardistica e neoavanguardistica e sperimentalistica) di forzare il linguaggio in esiti espressionistici (che pure, ecco la diversità da Rebora, in Rebora esiste, eccome).
Otto. Ancora un carattere: quello dialogico e vocativo. La poesia è dialogica e vocativa. Cerca il contatto con l'altro, gli parla, lo assume a confidente e a mentore. L'io diventa tu, si trasmuta anche lui nell’altro, che e preso (presa) a "collaborare", a vivere insieme l'esperienza della sofferenza e della gioia.
Nove. C'è la scepsi, in questa poesia. C'è il dubbio che non approda a verità certa (altra distanza da Rebora). Ma c'è soprattutto lo spiraglio (ci sono gli "spiragli”) di una salvezza (o di una saggezza) possibile. L'idea sottile che in quei "varchi", in quegli "oltre", in quei "sotto", in quegli "aldilà" sia dato di incontrare il segreto, che è poi il segreto del nostro destino individuale e comune,
Dieci. Avrei dovuto dire che questo è un libro compatto e articolato. Che non è frutto di addizione ma di costruzione. Preferisco che sia Guadagnino a dircelo. A dirci com'è nato. Io credo di aver detto anche troppo, con la perfetta coscienza che una poesia così articolata e compatta si presta a ben altre (e più profonde) considerazioni. Nessuna pretesa (o presunzione), mai, di esaurire la lettera. Se mai l'ambizione (spero mite, mitissima) di averne dato qualche gusto, averne orientata qualche passo, indicato qualche spiraglio, qualche varco.
Uno. Intanto vorrei dire che un poeta (se ho contato bene) di cinquantasei anni che pubblica il suo libro poetico (un esordio tardivo non significa che venga da tardiva vocazione) è quasi un miracolo. Di sicuro è una garanzia: primo perché significa che é incontentabile, secondo perché significa che è maturo, che ha meditato il detto oraziano, che non ha avuto fretta di apparire.
Due. Diego Guadagnino ha una sua voce, compatta e densa. Trasparente e chiara. E con questo ho già detto moltissimo. La chiarezza non è il valore, ma il valore non si esprime che attraverso di essa, diceva Pontiggia per Renard, per Daumal, per Collodi, per tutti coloro che chiamiamo "classici": una consapevolezza che muove da un presupposto: "la fede nella potenzialità enigmatica di un linguaggio chiaro". La sua poesia è per un verso parafrasabile (ancora), ma è nello stesso tempo gremita di tutta la contraddittorietà della vita, la natura drammatica della dualità (parola sua) che tende a condensarsi (concentrarsi) in unità. Ancora una volta la moderna natura dell'ossimoro (o del paradosso, se ci si rifacesse allo zen, del koan), della compresenza di verità in cozzo, in urto, in infusione.
Tre. Ho appena detto la parola "-vita". Una parola che nel testo dì Guadagnino ricorre con alta intensità. Potrei farne incetta: "il sonno della vita" (25), "E tu, vita sconvolta e sorvegliata" (28), "Dimesso il vestito della vita" (30), "nell'insonne crogiuolo della vita" (38), "nell'assoluto cuore della vita" (48), "poiché la vita è pena da scontare" (49), "I clienti che il mare della vita" (51), "il semplice mistero della vita" (53), e lascio i verbi "vivere", "vivo", e lascio anche di fare l'elenco completo delle occorrenze. Ma la frequenza é molto più che sintomatica. Significa che a contare è l'idea di entrare nella vita, di decifrarne il mistero, di coglierne le trasformazioni, o quella che Guadagnino chiama (il titolo) la "trasmutazione".
Quattro. Trasmutazione, dunque. Parola dantesca se ce n'é una (ma potrei aggiungere il verbo "vanire" che Guadagnino usa, non a caso, in un contesto di "trasmutazione": "il velo/ dipinto delle forme", in Girona, 97) Trasmutazione è parola prossima all'altra più nota e usata di "metamorfosi". In tutt'e due l'idea della mutazione in "altro" (trans-meta). La "danza delle forme'", come dice Guadagnino (34). Con un esempio, uno solo, bellissimo: "Verrà la luce per trasmutazione" (42).
Verrà la luce per trasmutazione
di quanto adesso è grumo di bisogno,
il cuore scioglierà la sua canzone
lavando la fuliggine del sogno.
Allora nell'ordito del disegno
si perderà come esile sussurro
la pena che ora muta tiene in pegno
questo giorno di nuvole e d'azzurro
Cinque. Dovremmo, a questo punto, cogliere la natura duale delle cose (Hic rodus, hic salta), di cui siamo - tutti - vittime e attori. E li (ma dovrei dire: e qui), la ricerca del varco (altra parola sintomatica) in cui consiste la nostra ricerca (la ricerca del poeta) di verità, parola segreta, parola indicibile, parola fondamentale: l'aldilà, il dietro, il sotto, l'oltre, parolette compagne, indivisibili. Fin dalla poesia "in limine" (come Gli Ossi di Montale, di cui corre qualche eco, specie nelle rime in "aglia", ad esempio il disinganno) (85), che s'íntitola Kali-Yuga (una nota che specifica: "Secondo la tradizione indù é l'Età Oscura, che è quella attuale").
Dolente in una minima dimora
scavata tra le sabbie del pensiero
la carne adula ciò che la divora
e vana la disperde nel mistero.
La muta sfera di un'eterna aurora
illumina lo spazio veritiero
nell'aldilà del senso che lavora
su forme d'ombra come fosse il vero.
La forza offende il sangue e fa precetto
graziando solamente la paura
che brulica in anfratti e per effetto
riduce questa terra a sua misura,
ne uccide l'acqua e l'erba... e maledetto
il cielo di quest'epoca ci oscura.
Vedete? Il qui e l'aldilà (del senso), vanità e consistenza, ombra e luce, realtà e mistero. E potrei continuare: silenzio e voce, fuoco e cenere, corpo e anima, paura e libertà, luce (chiarità) e buio, gioia e dolore, saggezza e follia, palpito e eterno, divisione e unità, morte e vita, contingente (tempo) e assoluto [il tempo intrappolato e il tempo liberato: La poesia (87).
E' l'anima che a se stessa si disvela
decifrando nel vissuto il suo mandàla;
l'anima che dal confine oscuro anela
liberarsi dal tempo che l'ammala.Superfluo e necessario, petalo e spina, io e Dio, limite e infinito (Leopardi, certo) e così via. Come nella poesia Degenza (80) e nell'ironico (c'è anche questo in Guadagnino) interrogativo di Leopardiana (111).
A un tempo stesso
amore e morte
serve il fioraio
con le sue scorte.
Tra l'essere
e l'apparire
sceglie
di scomparire.
Amai la vera gloria
di chi sa stare muto
e passare alla storia
senza essere vissuto.
Poi tutto si riduce
a quel racconto ameno
dell'uomo che per colpa
dei bagagli perde il treno.
I pesi che porto:
il vuoto dell'anima
l'ingombro del corpo.
Nel disegno di Dio
chi mai sarà quell'io
che vedo nello specchio di natura
diviso tra il parnaso e la pretura?
Finita la storia
ad alta tensione
ritorna con gloria
la depressione.
Che fatica,
risalire la china della vita
e scoprire alla fine che la meta
era questo ritrovarsi
alieni sul pianeta.
Sei. E qui farei una divagazione (ma mica tanto). A questo punto ho pensato (anche per il carattere profondamente morale e riflessivo della poesia di Guadagnino) all'importanza di un poeta che non so se Guadagnino abbia letto, ma che certo è tra i cruciali della prima metà del Novecento (si celebrano quest'anno i cinquant'anni dalla morte): vale a dire Clemente Rebora (magari associato a un altro poeta-pensatore come Michelstaedter). L'artiglio dell'io e l'artiglio di Dio. Dall'ipertrofia dell'ego alla sua dissoluzione, la suprema accoglienza che è fusione d'amore. Il dramma che si converte in confidenza, la ferita che si rimargina nell'abbraccio e nell'abbandono.
Sette. Sembrerà pedante, ma la poesia è anche fatta di versi e rime e metri. E' operazione per sé artificiosa, anche se di un artificio che mira a farsi dimenticare. Guadagnino non deroga (ho parlato di "classico", almeno come temperamento e tendenza). I suoi sono spesso endecasillabi, le sue rime sono quasi sempre pulite (non dei tour de force, non mirano allo shock). Sintatticamente nitidi, con qualche inarcatura non proprio frequente. Struttura che leggo come un tentativo in re (cioè nella cosa) di ordinare il caos e la contraddizione. Classico significa ben questo. Non cedere alla tentazione (avanguardistica e neoavanguardistica e sperimentalistica) di forzare il linguaggio in esiti espressionistici (che pure, ecco la diversità da Rebora, in Rebora esiste, eccome).
Otto. Ancora un carattere: quello dialogico e vocativo. La poesia è dialogica e vocativa. Cerca il contatto con l'altro, gli parla, lo assume a confidente e a mentore. L'io diventa tu, si trasmuta anche lui nell’altro, che e preso (presa) a "collaborare", a vivere insieme l'esperienza della sofferenza e della gioia.
Nove. C'è la scepsi, in questa poesia. C'è il dubbio che non approda a verità certa (altra distanza da Rebora). Ma c'è soprattutto lo spiraglio (ci sono gli "spiragli”) di una salvezza (o di una saggezza) possibile. L'idea sottile che in quei "varchi", in quegli "oltre", in quei "sotto", in quegli "aldilà" sia dato di incontrare il segreto, che è poi il segreto del nostro destino individuale e comune,
Dieci. Avrei dovuto dire che questo è un libro compatto e articolato. Che non è frutto di addizione ma di costruzione. Preferisco che sia Guadagnino a dircelo. A dirci com'è nato. Io credo di aver detto anche troppo, con la perfetta coscienza che una poesia così articolata e compatta si presta a ben altre (e più profonde) considerazioni. Nessuna pretesa (o presunzione), mai, di esaurire la lettera. Se mai l'ambizione (spero mite, mitissima) di averne dato qualche gusto, averne orientata qualche passo, indicato qualche spiraglio, qualche varco.
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