I pensieri e la notte,
Utopia, 2011
PREFAZIONE
Se
è vero, com’è vero, che il filosofo dona ciò che pensa e il poeta ciò
che sente, dobbiamo riconoscere che l’opera poetica nasce sempre
all’insegna del coraggio. Il coraggio di dar vita alla parola con
l’affanno della propria debolezza, con l’angoscia della propria
fragilità. E’ così che il poeta
legittima la totalità del sentire soggettivo riscattandola dalla
vergogna di riconoscersi come tale al cospetto dello sguardo indagatore
del vicino.
Nient’altro che questo compie, cristianamente, Leopardi quando giunge a scrivere “…e qui per terra/mi getto, e grido, e fremo. Oh, giorni orrendi/ in così verde etate!” Non è soltanto per sé, non è certo per bisogno di sfogo emozionale che il poeta mette in versi la disperata scompostezza del suo corpo, ma lo fa anche per noi, per noi che non abbiamo l’ardire di confessare al mondo l’inadeguatezza a fronteggiare gli urti della vita.
Nient’altro che questo compie, cristianamente, Leopardi quando giunge a scrivere “…e qui per terra/mi getto, e grido, e fremo. Oh, giorni orrendi/ in così verde etate!” Non è soltanto per sé, non è certo per bisogno di sfogo emozionale che il poeta mette in versi la disperata scompostezza del suo corpo, ma lo fa anche per noi, per noi che non abbiamo l’ardire di confessare al mondo l’inadeguatezza a fronteggiare gli urti della vita.
Questa considerazione sul senso e sul valore della poesia suggeriscono i versi che compongono I pensieri e la notte, la quarta silloge che Enza Giurdanella dà alle stampe. A metterci sulle orme di una simile lettura è la stessa autrice, che a mo’ di prologo o di ermeneutica del suo poetare , scrive tra l’altro:” A chi si chiede quale sia il
compito di un poeta vorrei rispondere che a lui tocca ricoprire un
ruolo importante difficoltoso: indossare i mali, le gioie, le attese del
mondo, a volte persino inconsapevolmente”. L’avventura poetica vive
dell’incanto della trasparenza,
del mistero di apparire privi di mistero nel punto in cui ogni singolo
uomo ritrova un frammento della propria ombra.
Enza Giurdanella , oltre a essere madre di due figli, è restauratrice. Il sapiente lavoro delle sue mani consiste nel ridare lucentezza a legni ingrigiti dal tempo, e spesso i versi le nascono lucidando vecchi mobili. L’attività creativa l’accompagna nel lavoro manuale come un canto silenzioso dell’anima che, scavando le sue verità profonde, elargisce nuovo splendore alle parole. Ne è testimone il suo linguaggio, pieno di vitalità e non scevro di sorprese semantiche disseminate lungo tutta la raccolta.
Il lettore viene subito immesso in medias res , nel mezzo di una partita ingaggiata tra l’io e il non-io, leitmotiv di fondo che dà al libro una quasi coerenza tematica da“canzoniere”. Sin dalla prima lirica, Abbandono, sappiamo di stare entrando in una dimensione esistenziale dove anche il naturale processo del divenire biologico viene percepito in forma di violenza ininterrotta, una violenza che si acuisce a ogni passaggio tra le fasi della vita. Crescere è subire un abbandono dopo l’altro. E l’io diventa straziato testimone del mutare.
Il
dolore, per il poeta, non riesce a identificarsi con un sole ardente
che matura il disincanto dell’essere, ma resta oscuro, incomprensibile
crogiuolo d’una condizione da mettere in conto al sadismo del non-io. E
questo non-io può assumere le
maschere più varie. A cominciare da quella della madre di cui coglie il “
duro tuo profilo tagliente” che spezza “ ali protese”. Figura
emblematica e ricorrente che “…torna/con persistenza nei pensieri/ di
chi avrebbe voluto solamente/dissetare la voglia di divenire uomo”, la madre appare come colei che dà la vita e la calpesta nel contempo. La musa adombrata della Giurdanella sembra risalire con la sua elegia dal ricordo di un’infanzia negata, da una precoce educazione all’abbandono. Noi
non sappiamo dove finisce il dato autobiografico e dove comincia quello
simbolico, tanto più che questo giuoco dell’identità viene coltivato da
un io poetante che a volte predilige vivere dall’interno persone reali
trasformate in personaggi. Così accade nei componimenti dedicati
all’infanzia del pittore Salvatore Fratantonio o all’esperienza manicomiale della poetessa Alda Merini. Ma la poesia, quando esiste, traluce anche da dietro le maschere più spesse. Come avviene con L’Altro,
entità non nominabile altrimenti e che impersona il non-io per
eccellenza.”Se ne sta a guardare, l’Altro,/condannandomi con
l’indifferenza” dice il poeta. “L’Altro mi guarda deridendomi./Mi
violenta, infanga il mio nome./Non vede dolore,/né sente
amore.//Disumano odio dirama/sotto l’urlo impazzito del mio
essere/annientato da arido sguardo.// Ed io,/lentamente muoio/crocifisso
dentro un corpo/ridotto a brandelli.” Ma l’altro
non è che la radiografia dell’io quando perde la cognizione e il
sentimento dell’amore. E in questo senso la poesia della Giurdanella è
un lamento che rivendica con tutto il dolore del mondo la necessità
primaria dell’amore.
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