domenica 24 marzo 2013

DIEGO GUADAGNINO, Prefazione di "I pensieri e la notte"

Enza Giurdanella,
I pensieri e la notte,
Utopia, 2011


PREFAZIONE

   Se è vero, com’è vero, che il filosofo dona ciò che pensa e il poeta ciò che sente, dobbiamo riconoscere che l’opera poetica nasce sempre all’insegna del coraggio. Il coraggio di dar vita alla parola con l’affanno della propria debolezza, con l’angoscia della propria fragilità.  E’ così che il poeta legittima la totalità del sentire soggettivo riscattandola dalla vergogna di riconoscersi come tale al cospetto dello sguardo indagatore del vicino.
Nient’altro che questo compie, cristianamente, Leopardi quando giunge a scrivere “…e qui per terra/mi getto, e grido, e fremo. Oh, giorni orrendi/ in così verde etate!”  Non è soltanto per sé, non è certo per bisogno di sfogo emozionale che il poeta  mette in versi  la disperata scompostezza del suo corpo, ma lo fa anche per noi, per noi che non abbiamo l’ardire di confessare al mondo l’inadeguatezza a fronteggiare gli urti della vita.


    Questa considerazione sul senso e sul valore della poesia suggeriscono i versi  che compongono I pensieri e la notte, la quarta silloge che Enza Giurdanella dà alle stampe. A metterci sulle orme di una  simile lettura è la stessa autrice, che a mo’ di prologo o di ermeneutica  del suo poetare , scrive tra l’altro:” A chi si chiede quale sia  il compito di un poeta vorrei rispondere che a lui tocca ricoprire un ruolo importante difficoltoso: indossare i mali, le gioie, le attese del mondo, a volte persino inconsapevolmente”. L’avventura poetica vive dell’incanto  della trasparenza, del mistero di apparire privi di mistero nel punto in cui ogni singolo uomo ritrova un frammento della propria ombra.


   Enza Giurdanella , oltre a essere madre di due figli, è restauratrice.  Il sapiente lavoro delle sue mani consiste nel ridare lucentezza a legni ingrigiti dal tempo, e spesso i  versi  le nascono lucidando vecchi mobili.  L’attività creativa l’accompagna nel lavoro manuale come un canto silenzioso dell’anima che, scavando le sue  verità profonde, elargisce nuovo splendore alle parole.  Ne è testimone il suo linguaggio, pieno di vitalità e non scevro di sorprese semantiche disseminate lungo tutta  la raccolta.


  Il lettore viene subito  immesso   in medias res , nel mezzo   di una partita ingaggiata tra l’io e il non-io,  leitmotiv di fondo che dà al libro una quasi coerenza tematica  da“canzoniere”. Sin dalla prima lirica, Abbandono,  sappiamo di stare entrando in una dimensione esistenziale dove anche  il naturale processo del divenire biologico viene percepito in forma di violenza ininterrotta, una violenza  che si acuisce a ogni passaggio tra le fasi della vita. Crescere è subire un abbandono dopo l’altro. E l’io diventa  straziato testimone del mutare.


 Il dolore, per il poeta, non riesce a identificarsi con un sole ardente che matura il disincanto dell’essere, ma resta oscuro, incomprensibile crogiuolo d’una condizione da mettere in conto al sadismo del non-io. E questo non-io può assumere  le maschere più varie. A cominciare da quella della madre di cui coglie il “ duro tuo profilo tagliente” che spezza “ ali protese”. Figura emblematica e ricorrente che “…torna/con persistenza nei pensieri/ di chi avrebbe voluto solamente/dissetare la voglia di divenire uomo”,  la madre appare come colei che dà la vita e la calpesta nel contempo. La musa  adombrata  della Giurdanella  sembra risalire con la sua elegia dal ricordo di un’infanzia negata, da una precoce educazione all’abbandono.  Noi non sappiamo dove finisce il dato autobiografico e dove comincia quello simbolico, tanto più che questo giuoco dell’identità viene coltivato da un io poetante che a volte predilige vivere dall’interno persone reali trasformate in personaggi. Così accade nei componimenti dedicati all’infanzia del pittore Salvatore Fratantonio  o all’esperienza manicomiale della poetessa Alda Merini.  Ma  la poesia, quando esiste, traluce anche da dietro le maschere più spesse. Come avviene con L’Altro, entità non nominabile altrimenti e che impersona il non-io per eccellenza.”Se ne sta a guardare, l’Altro,/condannandomi con l’indifferenza” dice il poeta. “L’Altro mi guarda deridendomi./Mi violenta, infanga il mio nome./Non vede dolore,/né sente amore.//Disumano odio dirama/sotto l’urlo impazzito del mio essere/annientato da arido sguardo.// Ed io,/lentamente muoio/crocifisso dentro un corpo/ridotto a brandelli.” Ma  l’altro non è che la radiografia dell’io quando perde la cognizione e il sentimento dell’amore. E in questo senso la poesia della Giurdanella è un lamento che rivendica con tutto il dolore del mondo la necessità primaria dell’amore.

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