Non avrei mai pensato di scrivere la prefazione a un libro di poesie
dell’Arciprete (lo chiamo così conformemente a come fa tutta Canicattì,
per la quale mons. Vincenzo Restivo ha saputo essere ed è rimasto
l’Arciprete per antonomasia.) E’ stato mio professore di religione nei
tre anni di liceo. Per me che, parafrasando il celebre detto di
Clemanceau sulla guerra, ho sempre pensato che la religione è cosa
troppo seria per essere lasciata solo ai preti, l’ora settimanale della
sua materia era una specie di ghiotteria dialettica alimentata dal
desiderio dello studente di mettere in difficoltà il professore, ma
anche sollecitata dalla sua capacità di indurre noi allievi alla
riflessione e al confronto sui tempi più svariati.
Peraltro, quelli erano gli anni in cui in Italia infuriava la contestazione a tutte le forme di potere istituzionalizzato e quell’atmosfera politica e culturale non poteva che gravare ulteriormente di passione gli accenti del mio dialogare.
Negli anni ho avuto modo di apprezzare la limpidezza della sua prosa e l’arguzia delle sua poesia, entrambe ispirate dalla sua esperienza pastorale e finalizzate alla pedagogia della saggezza. Il suo mondo letterario si muove nel perimetro del paese, nel senso più nobile e genuino della parola, (una precisazione, questa, forse superflua dopo l’esperienza di Sciascia con la sua Regalpetra-Racalmuto), in cui gli uomini, prevalentemente contadini, vivono e si muovono dovendo affrontare i problemi e le difficoltà del vivere di sempre e di tutti.
Quando mi venne a trovare allo studio, nel consegnarmi il manoscritto da prefare mi disse “Scrivi quello che vuoi”. Voglio pensare che a questa manifestazione di fiducia totale non fosse estranea la lettura di Trasmutazione, di cui gli ho donato una copia qualche anno fa. E sono convinto che quella lettura abbia preparato questo incontro di scrittura sul terreno comune dei temi della spiritualità, della religiosità, della trascendenza. Che sono temi ricorrenti in questa sua ennesima raccolta poetica.
D’altronde egli, alla veneranda età di novantasette anni, si trova a vivere quello stadio della vita umana in cui tendono ad affievolirsi i clamori del tempo per lasciare spazio ai silenzi dell’anima. E’ la dimensione in cui la lettera si fa spirito e il credente muta in religioso, se è vero che la fede comincia a essere pienamente operante nella perdita, nell’assenza di tutto ciò che è parto del tempo. Il concetto viene espresso attraverso la figura tragica del villano che nella furia del temporale perde asino, maiale e raccolto.
Era un fatto realmente accaduto nelle campagne di Canicattì e che Monsignore, com’era nel suo accattivante stile didattico, ci raccontava a scuola. Un villano dopo aver trebbiato e spulato il frumento, viene sorpreso da un violento temporale che gli porta via tutta la fatica di un’annata e il sostentamento per l’inverno. Passata la tempesta, disperato leva gli occhi al cielo e dice a Dio “Ora cchiù nenti mi po’ fari, tu ca si patri ora ma dari a mangiari”. In queste pagine l’aneddoto è diventato componimento poetico. E per la sua pregnanza può essere eletto a chiave di lettura di quella parte della silloge in cui l’io poetante coincide col mondo interiore dell’autore al cospetto del mistero della trascendenza.
La vicenda del villano canicattinese nel suo rapporto con l’Eterno racchiude in sé la cognizione e la condizione della religiosità quale si è venuta delineando nella cultura moderna da Soren Kiekegaard a Simone Weil. La disperazione, che non ha ragione di esistere per un sensibilità credente, è metabolizzata, trasformata dal pensiero religioso. L’uomo deve passare attraverso l’esperienza della disperazione per entrare, superandola, nel territorio religioso. Da ciò l’ammonimento kierkegaardiano “Dispera, dispera profondamente” o l’invocazione di Simone Weil “Dio, fammi nulla .” Finché l’uomo rimane impigliato nelle lusinghe del tempo o nelle trappole del’io si preclude il senso della trascendenza.
Mi scuso della digressione, necessaria, però, per entrare nell’ordine del libro, sulle cui pagine appare ben delineata e vissuta la dialettica tra il tempo e l’eternità, tra l’umano e il divino, tra la vita e la morte. La parola, il poeta e il lettore stesso a cui si rivolge sono effimeri segni che vivono tra due sponde di silenzio:
Fra due sponde di silenzio
nasce e muore la parola
concerto fragile di sillabe.
Sono io, sei tu,
la voce di un giorno
tra due sponde di silenzio eterno.
Il silenzio come cifra del distacco dall’immanente diventa attesa, diventa il punto metafisico in cui s’intuisce la possibilità dell’incontro con Dio:
Se Tu non parli,
attenderò fidente
finché il silenzio
s’animi di Te.
Come nelle istruzioni per l’itinerario all’esperienza estatica del divino che riempiono i tomi dei grandi mistici, ciò che principalmente nasconde Dio è l’io. Mi immergo è il titolo della poesia in cui il poeta cerca la presenza divina nei singoli elementi della natura per sigillare ogni volta il tentativo con un grido di delusione “ma Tu ti nascondi”, finché una voce interiore gli risponde “tu mi nascondi/ io sono in te.” Ma l’io non è che passeggero riverbero del tempo sullo spirito e l’uomo, divenuto consapevole di tale verità, si trova a contemplare questo passaggio con l’ingannevole sensazione che sia reale. A questo paradosso percettivo sembra alludere l’autore quando parla del tempo come di un laboratorio che lo trasforma:
Muore ogni giorno qualcosa di me
e lo cedo alla terra, nel tempo;
vive qualcosa di me e lo cedo all’eternità
sempre nel tempo
Nel tempo tutto è trasformazione e lo sa La nube “suorina bianca/soffio di lana” che “insofferente o stanca/ del vivere nel branco” se ne distacca per vagare da sola e sciogliersi “in lacrime”. E’ un’immagine, è una forma che col poeta condivide la segreta nostalgia dell’infinito dal quale e nata e al quale tende; è un’immagine, ancora, che collega la poetica del nostro Arciprete a quella di una altro prete-poeta innamorato della natura, ma ancora più innamorato delle nuvole dal cui continuo mutamento di forme e di colori era affascinato: Gerard Manley Hopkins. Non so se la sua opera rientri tra le frequentazioni di mons. Restivo ma in entrambi senz’altro somigliante è lo spirito che li muove quando leggono l’alfabeto del creato.
Non esito ad affermare che i risultati più felici l’Arciprete poeta li raggiunge nei componimenti brevi dove immagini e sentimento sono così ben compattati nel giro di pochi versi da non permettere crepe nell’attenzione del lettore. Era invitabile, perciò, che ricadesse tra questi componimenti Conchiglie vuote che merita di essere trascritto integralmente:
Ai margini del fiume
il Libro gioca al vento
le sue pagine antiche,
come labbruzze schiuse
a palpitar parole nuove.
Carovane d’uomini assonnati
passano stanche
a raccattar conchiglie vuote.
E’ una poesia che colpisce subito per la bellezza delle immagini evocate che vanno dal fiume al libro, dalle carovane alle conchiglie. Ma c’è anche una sotterranea eleganza di richiami tra le “pagine antiche” e le “parole nuove”, tra il palpitare delle “labbruzze schiuse” e gli “uomini assonnati”, tra il libro che “gioca al vento” e le carovane che “passano stanche”, tra il palpitare e il raccattare, e si può continuare a scoprire ancora altre simmetrie per arrivare al non detto, all’ invito implicito a decifrare la visione complessiva dello scenario.
Può essere usato questo microcosmo (ogni poesia lo è) del libro abbandonato e degli uomini assonati per introdurre a un altro filo che, oltre a quello dell’intimo sentire religioso, lega la silloge in coerenza di poema: mi riferisco alla condizione di prete dell’autore. Una condizione che non può essere scissa da ogni altro aspetto della sua vita. Egli non può limitarsi a contemplare liricamente la distanza tra gli uomini e il libro, ma deve per vocazione, per missione, meglio ancora se per tutte e due, entrare nel paesaggio e avvicinare le carovane assonnate al verbo del libro.
Questa condizione di operatore spirituale nel crogiolo del mondo si riflette esemplarmente in Vorrei… Forse un altro poeta si sarebbe fermato alla prima parte della poesia. A quella del desiderio negativo del “vorrei non avessi”, e ci avrebbe dato un componimento ricco di suggestioni mistiche, ma l’autore non può dimenticare che la sua esperienza personale va messa al servizio della sua missione e perciò scrive la seconda parte che si può definire didattica, in quanto mira a insegnare come usare al meglio i sensi nel commercio con la realtà circostante.
Come nel caso del villano canicattinese spogliato dal temporale, ancora è una poesia dialettale a darci l’icona paradigmatica della difficile mediazione tra spirito e mondo a cui è chiamato il sacerdote. La cinquina è una poesia-racconto che ha per protagonista “un parrinu murritusu” che “campava a pane e acqua ‘impinitenza” e faceva prediche infuocate contro i peccati, specialmente quelli riguardanti il sesso, con la conseguenza che i fedeli ‘ncavulati lo mettono davanti a un aut-aut “O chiui la to vucca o chiui chiesa”.
Sotto l’apparente leggerezza scherzosa del personaggio macchietta, in realtà si nasconde una problematica seria che è quella di una Chiesa che si trova a dover coniugare tradizione e modernità. Adeguarsi ai tempi per sopravvivere o salvaguardare l’ortodossia. E’ questo forse il maggiore dilemma che la contemporaneità pone alla Chiesa. La risposta, sembra suggerire l’Arciprete attraverso il suo personaggio,non è certamente l’integralismo, che non va comunque confuso con la tradizione. Anzi l’integralismo, che è fanatismo, distorce la tradizione credendo di servirla. Non è questa la sede per parlare di tale problema ( e peraltro io non avrei legittimazione attiva, come si dice nel gergo avvocatesco), tuttavia una notazione sul punto va fatta. Ieri la Chiesa veniva osteggiata dall’anticlericalismo ateo che rafforzava le ragioni del suo esistere, oggi è corteggiata dagli atei devoti che ne insidiano l’identità sollecitandone la tentazione di potere. Il rischio è quello di ritrovarsi svuotata di veri fedeli e piena di atei devoti che ne vampirizzano i simboli (più che il messaggio) per farne linfa di politiche spesso anticristiane.
Mentre il prete di La cinquina viene richiamato al senso della realtà dai propri fedeli, in Sii quel che sei, è l’autore stesso a essere destinatario del precetto diventato titolo della poesia. Ed è un imperativo categorico inteso a far prevalere sul “cuore di carne” quella che viene chiamata “l’impronta del Padre”. I versi nascono in un momento di debolezza e perciò di umiltà. La condizione pascaliana della duplice natura umana, angelica e bestiale, è vissuta anche dal prete. Ma se il laico può avere mille ragioni per vincere la bestia il prete ne ha una sola ed è quella della sua missione. Egli per definizione è vocato a essere la punta di diamante dell’evoluzione spirituale, per questo, umanamente, sente il bisogno di ricordare a se stesso Non sei più tuo, sei espropriato. La sincerità profonda in questi versi si fa vera poesia, e la vera poesia è bellezza assoluta, un vertice che l’ultima strofe raggiunge nella sua pienezza:
Operaio del mattino, attacca l’aratro alle stelle
e rompi le dure zolle della vigna,
perché dia vino nuovo agli otri vecchi.
Sii quel che sei.
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