Possiamo definire l’esperienza poetica di Domenico
Turco come un’avventura evolutiva riflessa nelle possibilitá della
parola, e, a conferma della legittimità di questa definizione, evocare a
confronto i temi, i toni e le tinte di Sottovoce, sua opera prima, con
le illuminanti aperture sulla vita che costellano quest’ultima sua
raccolta di poesie, non a caso affidata a un titolo dal vago sapore
iniziatico, Acque lustrali.
E’ stato detto che la morte predomina nelle pagine di Sottovoce; in realtà, più che la morte come espressione e contemplazione di un’esistenza che null’altro sa proporre, aleggia in quei versi la vacuità di una esperienza non incarnata nel tempo, di una esperienza che svigorita dall’abuso della sofferenza non riesce o non vuole trascendersi nel quotidiano fluire della vita e trascorrere con essa. Ma già nella seconda raccolta poetica, Numi del sortilegio, non mi dite…, questa specie di limbo della volontà si supera nel bisogno di esistere nel mondo e si esprime nelle forme di un’invocazione che, rifiutando l’astratto sentimento del passato e l’altrettanto astratto timore del futuro, vuole attingere linfa nella concreta pienezza del presente:
Numi del sortilegio, non mi dite
Quel che vissi, che sarà di me domani.
Ditemi il canto profondo della vita:
La luce del sole e le rondini in volo,
I cieli d’aprile, l’orizzonte in fiamme.
Ed è, ancora senza soluzione di continuità tematiche che sulla soglia de I limiti e l'immenso, opera successiva, ci imbattiamo nella medesima invocazione, riformulata in un contesto di maggiore maturità filosofica e di più ampia padronanza poetica:
0 dea, non adescare questa mente
Con l’attesa di un’altra vita,
Con l’oro di un piü gentile domani...
Questa tenace volontâ di sottrarsi alla tentazione o alla fascinazione di fughe nell’astratto, filo conduttore non sotteso ma proclamato con disarmante candore, ci induce a vedere nella poetica di Domenico Turco la mappa di un cammino spirituale in cui la lucidità si è fatta ascesi protesa giomo dopo giorno a individuare la direzione e a fissarne il tracciato. “La morte meditata/ ridona nuova vita ai / deserti…”, scrive il giovane poeta canicattinese nella parte finale de I limiti e 1 ‘immenso, dandoci una illuminante sintesi delle coordinate del suo poetare, alimentato dalla segreta vibrazione di quel “meditare”che sa compiere ii miracolo di far rinascere la vita. Acque lustrali, dunque, ci si presenta come traguardo e come fase di un cammino, come l’ultimo capitolo di una work in progress (opera in divenire) che coinvolge in prima persona l’uomo e il poeta Domenico Turco. L’Invocazione, che apriva le precedenti opere, qui si trasforma in Annunciazione, primo titolo della raccolta, una poesia che assume la rigogliosa esplosione della primavera a segno di un punto di non ritorno (E come imparare ad amare l’ Ombra, / dopo averti incontrato, Luce? – “Nel segno della luce”) verso una dimensione di serenità, di forza e di limpidezza che non possiamo non dire religiosa, e in particolare di una religiosità che coniuga il senso del dolore a una visione di inconsapevole, spontaneo (e appunto per questo autentico) Taoismo[1], per il suo ricongiungersi con l’universo in un rapporto di armonica interdipendenza, culmine di un processo di ispirazione e di pensiero inteso a fare della sofferenza personale la porta di accesso a una trascendenza che, senza negare la materia anzi nobilitandola, rimpicciolisce fino alla insignificanza il montaliano “male di vivere”:
Nessun tempio per la mia fede,
nessun fuoco per le candele
né acqua di benedizione, io che vivo
in un sogno di luce
insanguinata nel tramonto.
No, non parlate di miracoli:
il mondo ne è pieno: alberi, fiori,
bambini che ridono, usignoli.
La mia fede.
Dall’alto della sua sofferenza fisica, Domenico Turco, innamorato della parola traditrice / che non sa amare, non sa amarmi (Altre stagioni), in realtà riesce a vivificare e ammaestrare quella parola per annunciarci che, indovinato il giusto approccio, il dolore, sotto qualsiasi forma di vissuto, non è che una fase del capire e che la gioia dell’illuminazione o, più prosaicamente, dell’apprendimento, è di gran lunga più intensa e più duratura della spina che immediatamente la precede. Restiamo vittime di un caotico e avaro soffrire quando non riusciamo ad aprire una breccia che ci permetta di vedere con distacco rivelatore l’apparente dualismo di speranza e disperazione, ricongiungendo l’attimo all’eternità:
L’attimo distingue l’Eternità
e come il passo, insegna il cammino,
alla luce del cielo.
Breccia nel caos.
Ne consegue che il male puó essere accettato nell’ottica del Giobbe biblico quando esciama “Anche se egli mi uccide io avrò flducia in lui”, frase di cui è parafrasi l’affermazione di Domenico:
Un paradosso d’amore ci fa imprecare
contro di Te, immensamente giusto
e crudele, se permetti a! Buio
di trafiggere i nostri chiari giorni,
alla morte di uccidere la vita.
La strada inaccessibile.
La consapevolezza di questo paradosso d’amore è resa possibile dal fatto che “vinta è la battaglia / della mente che ottusa ti negava”. La mente, in quanto matrice di autoinganni, è la presenza più costante nelle pagine di Domenico Turco, abbiamo centinaia di poesie ( e faccio riferimento anche all’opera inedita, di gran lunga più vasta rispetto a quanto fin oggi pubblicato) in cui la mente viene evocata a! fine di sventarne le insidie ed essere ridotta alla impossibilità di nuocere. “L’inferno è pensare di stare in paradiso senza esserci”, ha scritto Simone Weil, lasciando intuire che l’edonismo, se non è Ia bolgia dei dannati, è sicuramente il paradiso degli imbecilli: ebbene, tutto il lavoro di questo giovane poeta, condannato dal destino all’immobilità, nella casa dei suoi genitori nelle campagne di Canicattì, può essere ridotto a un’unica incessante battaglia contro questo tipo di inferno subdolo o di finto paradiso che è, comunque, un artificio della mente; una ricerca che a pieno titolo certifica la parentela del suo genio poetico e filosofico con nomi tra i più nobili della cultura del Novecento, Paul Valery, Wittgenstein e, soprattutto alla luce degli esiti di fondo di quest’ultima silloge, Simone Weil. Tutti nomi che nel consuntivo del secolo scorso risultano all’attivo per avere operato, rispetto alla coscienza infelice del romanticismo da Novalis a Leopardi, il recupero del pensiero alla felicità dell’intelligenza. Contrariamente a quanto avviene in Leopardi, a cui indebitamente, molto indebitamente, viene qualche volta accostato, Domenico non vive l’antitesi tra poesia e pensiero, tra illusione poetica e coscienza infelice, ma fonde le due componenti, e talmente bene che, come giustamente ha osservato G. Singh, abbiamo “un pensiero fatto poesia e una poesia fatta pensiero”. Ecco perché Ia poesia non ê per 1ui un bene rifugio che lo protegge o, come diceva Pavese, lo ripaga delle malefatte della vita, Domenico non solo non fugge dal suo dolore nella letteratura, ma, anzi, è proprio nell’affrontarlo che forgia quella misteriosa energia che gli fa dire:
Per quanto viva, della vita
porterò lieto l’immane fardello:
troverò modo di restare in piedi
anche quando Scirocco soffia forte,
l’onda immensa ci tenta, ma non mi travolge.
Di là dai simulacri.
E questo battagliero stoicismo alla fine gli consente di intendere quello che sfugge alla nostra distratta debolezza: la voce sibillina della Vita che tra monito e rivelazione lo incita e lo sostiene:
segui la Via, di là dai simulacri
che serrano nel piombo la realtà.
Viaggiatore, onora il tuo destino!
Di là dai simulacri.
La presenza emblematica dell’Eroe del fuoco, personificazione dello spirito del divenire del mondo, maschera che assomma i tratti di Eraclito e Dioniso, ma soprattutto incarnazione mitica della Weltanschauung del poeta, testimonia la frequenza con cui Domenico ricorre al mito, che, riscattato dal degrado di racconto ameno e frivolo voluto dai Padri della Chiesa, viene riabilitato alla sua funzione originaria di ricettacolo di verità nascoste. Alla maniera di altri poeti del Novecento come Rilke, Yeats, Eliot, per Domenico Turco che pratica la poesia come esercizio di una conoscenza totale, il mito, per la sua connessione con il sacro, diventa uno strumento espressivo necessario e insostituibile, diventa il significante obbligato di un significato altrimenti indicibile.
Nella poesia La sorgente, eletto il vento a intermediario tra l’uomo e la divinità, viene identificata la sostanza di tale intermediazione nel mito:
Vento che torni, nell’ombra racconti
nuovi miti, invece degli antichi,
narri ai sensi insoddisfatti le infinite mete
dello spirito che a sé stesso è velo…
La riabilitazione del mito non equivale però ad una estrapolazione del suo più complesso contesto culturale, ma è solo un aspetto della più vasta riabilitazione della cultura pagana che, caratterizzata da un’adesione incondizionata alle forme dell’essere, viene ritenuta più carica di vitalità rispetto a quella cristiana, o perlomeno a quello che è divenuto la “civiltà cristiana”. Si legga a tal proposito All’ombra della roccia grigia, che ripropone la figura eliotiana di San Narciso, ma in tutt’altra luce rispetto a quella del poeta di The Waste Land. Attraverso le metamorfosi del santo da pianta d’ulivo a quercia, da quieto pesce a bella ninfa assistiamo ad una dilatazione cosmica del narcisismo, nell’ambito della quale la memoria biologica si fa coscienza e la molteplicità delle forme della vita si riduce alla sua essenziale unità, facendoci apparire illusoria la morte (ogni morte) di Narciso, dovuta alla fascinazione della separatezza del singolo dal tutto. Ma il trapasso dal paganesimo al cristianesimo, sebbene accettato con divino entusiasmo (m’immersi nell’ebbrezza del martirio) delude le aspettative riposte nella metamorfosi e nel movimento, e il santo si ritrova
…testimone della fine;
per una triste alba imperitura;
per un inizio di molle indolenza…
Che questa delusione sia poi ascrittibile all’ipoteca paolina o al compromesso costantiniano, o a entrambi, è questione inappropriata per questa sede, dove va rilevato, invece, come e quanto la poesia di Domenico Turco sia dinamica e corrosiva quando si trova a collidere con la storia. Belle poesie de I limiti e l’immenso, soprattutto nella sezione interna intitolata Angelo infuriato, ne sono la testimonianza più esplicita e convincente. Un interesse, quello per la storia, che nel mondo poetico di Domenico non solo non contraddice la sua più fertile e congeniale vocazione metafisica ma ci sembra addirittura che in essa trovi forza e ragione, visto che gli uomini, gli abitatori dei limiti, i prigionieri del tempo
…fluttuano nell’acqua
come uccelli in mezzo al vento,
soddisfatti del quieto
elemento,dello scrigno del mondo
Lo scrigno magico).
E’ stato detto che la morte predomina nelle pagine di Sottovoce; in realtà, più che la morte come espressione e contemplazione di un’esistenza che null’altro sa proporre, aleggia in quei versi la vacuità di una esperienza non incarnata nel tempo, di una esperienza che svigorita dall’abuso della sofferenza non riesce o non vuole trascendersi nel quotidiano fluire della vita e trascorrere con essa. Ma già nella seconda raccolta poetica, Numi del sortilegio, non mi dite…, questa specie di limbo della volontà si supera nel bisogno di esistere nel mondo e si esprime nelle forme di un’invocazione che, rifiutando l’astratto sentimento del passato e l’altrettanto astratto timore del futuro, vuole attingere linfa nella concreta pienezza del presente:
Numi del sortilegio, non mi dite
Quel che vissi, che sarà di me domani.
Ditemi il canto profondo della vita:
La luce del sole e le rondini in volo,
I cieli d’aprile, l’orizzonte in fiamme.
Ed è, ancora senza soluzione di continuità tematiche che sulla soglia de I limiti e l'immenso, opera successiva, ci imbattiamo nella medesima invocazione, riformulata in un contesto di maggiore maturità filosofica e di più ampia padronanza poetica:
0 dea, non adescare questa mente
Con l’attesa di un’altra vita,
Con l’oro di un piü gentile domani...
Questa tenace volontâ di sottrarsi alla tentazione o alla fascinazione di fughe nell’astratto, filo conduttore non sotteso ma proclamato con disarmante candore, ci induce a vedere nella poetica di Domenico Turco la mappa di un cammino spirituale in cui la lucidità si è fatta ascesi protesa giomo dopo giorno a individuare la direzione e a fissarne il tracciato. “La morte meditata/ ridona nuova vita ai / deserti…”, scrive il giovane poeta canicattinese nella parte finale de I limiti e 1 ‘immenso, dandoci una illuminante sintesi delle coordinate del suo poetare, alimentato dalla segreta vibrazione di quel “meditare”che sa compiere ii miracolo di far rinascere la vita. Acque lustrali, dunque, ci si presenta come traguardo e come fase di un cammino, come l’ultimo capitolo di una work in progress (opera in divenire) che coinvolge in prima persona l’uomo e il poeta Domenico Turco. L’Invocazione, che apriva le precedenti opere, qui si trasforma in Annunciazione, primo titolo della raccolta, una poesia che assume la rigogliosa esplosione della primavera a segno di un punto di non ritorno (E come imparare ad amare l’ Ombra, / dopo averti incontrato, Luce? – “Nel segno della luce”) verso una dimensione di serenità, di forza e di limpidezza che non possiamo non dire religiosa, e in particolare di una religiosità che coniuga il senso del dolore a una visione di inconsapevole, spontaneo (e appunto per questo autentico) Taoismo[1], per il suo ricongiungersi con l’universo in un rapporto di armonica interdipendenza, culmine di un processo di ispirazione e di pensiero inteso a fare della sofferenza personale la porta di accesso a una trascendenza che, senza negare la materia anzi nobilitandola, rimpicciolisce fino alla insignificanza il montaliano “male di vivere”:
Nessun tempio per la mia fede,
nessun fuoco per le candele
né acqua di benedizione, io che vivo
in un sogno di luce
insanguinata nel tramonto.
No, non parlate di miracoli:
il mondo ne è pieno: alberi, fiori,
bambini che ridono, usignoli.
La mia fede.
Dall’alto della sua sofferenza fisica, Domenico Turco, innamorato della parola traditrice / che non sa amare, non sa amarmi (Altre stagioni), in realtà riesce a vivificare e ammaestrare quella parola per annunciarci che, indovinato il giusto approccio, il dolore, sotto qualsiasi forma di vissuto, non è che una fase del capire e che la gioia dell’illuminazione o, più prosaicamente, dell’apprendimento, è di gran lunga più intensa e più duratura della spina che immediatamente la precede. Restiamo vittime di un caotico e avaro soffrire quando non riusciamo ad aprire una breccia che ci permetta di vedere con distacco rivelatore l’apparente dualismo di speranza e disperazione, ricongiungendo l’attimo all’eternità:
L’attimo distingue l’Eternità
e come il passo, insegna il cammino,
alla luce del cielo.
Breccia nel caos.
Ne consegue che il male puó essere accettato nell’ottica del Giobbe biblico quando esciama “Anche se egli mi uccide io avrò flducia in lui”, frase di cui è parafrasi l’affermazione di Domenico:
Un paradosso d’amore ci fa imprecare
contro di Te, immensamente giusto
e crudele, se permetti a! Buio
di trafiggere i nostri chiari giorni,
alla morte di uccidere la vita.
La strada inaccessibile.
La consapevolezza di questo paradosso d’amore è resa possibile dal fatto che “vinta è la battaglia / della mente che ottusa ti negava”. La mente, in quanto matrice di autoinganni, è la presenza più costante nelle pagine di Domenico Turco, abbiamo centinaia di poesie ( e faccio riferimento anche all’opera inedita, di gran lunga più vasta rispetto a quanto fin oggi pubblicato) in cui la mente viene evocata a! fine di sventarne le insidie ed essere ridotta alla impossibilità di nuocere. “L’inferno è pensare di stare in paradiso senza esserci”, ha scritto Simone Weil, lasciando intuire che l’edonismo, se non è Ia bolgia dei dannati, è sicuramente il paradiso degli imbecilli: ebbene, tutto il lavoro di questo giovane poeta, condannato dal destino all’immobilità, nella casa dei suoi genitori nelle campagne di Canicattì, può essere ridotto a un’unica incessante battaglia contro questo tipo di inferno subdolo o di finto paradiso che è, comunque, un artificio della mente; una ricerca che a pieno titolo certifica la parentela del suo genio poetico e filosofico con nomi tra i più nobili della cultura del Novecento, Paul Valery, Wittgenstein e, soprattutto alla luce degli esiti di fondo di quest’ultima silloge, Simone Weil. Tutti nomi che nel consuntivo del secolo scorso risultano all’attivo per avere operato, rispetto alla coscienza infelice del romanticismo da Novalis a Leopardi, il recupero del pensiero alla felicità dell’intelligenza. Contrariamente a quanto avviene in Leopardi, a cui indebitamente, molto indebitamente, viene qualche volta accostato, Domenico non vive l’antitesi tra poesia e pensiero, tra illusione poetica e coscienza infelice, ma fonde le due componenti, e talmente bene che, come giustamente ha osservato G. Singh, abbiamo “un pensiero fatto poesia e una poesia fatta pensiero”. Ecco perché Ia poesia non ê per 1ui un bene rifugio che lo protegge o, come diceva Pavese, lo ripaga delle malefatte della vita, Domenico non solo non fugge dal suo dolore nella letteratura, ma, anzi, è proprio nell’affrontarlo che forgia quella misteriosa energia che gli fa dire:
Per quanto viva, della vita
porterò lieto l’immane fardello:
troverò modo di restare in piedi
anche quando Scirocco soffia forte,
l’onda immensa ci tenta, ma non mi travolge.
Di là dai simulacri.
E questo battagliero stoicismo alla fine gli consente di intendere quello che sfugge alla nostra distratta debolezza: la voce sibillina della Vita che tra monito e rivelazione lo incita e lo sostiene:
segui la Via, di là dai simulacri
che serrano nel piombo la realtà.
Viaggiatore, onora il tuo destino!
Di là dai simulacri.
La presenza emblematica dell’Eroe del fuoco, personificazione dello spirito del divenire del mondo, maschera che assomma i tratti di Eraclito e Dioniso, ma soprattutto incarnazione mitica della Weltanschauung del poeta, testimonia la frequenza con cui Domenico ricorre al mito, che, riscattato dal degrado di racconto ameno e frivolo voluto dai Padri della Chiesa, viene riabilitato alla sua funzione originaria di ricettacolo di verità nascoste. Alla maniera di altri poeti del Novecento come Rilke, Yeats, Eliot, per Domenico Turco che pratica la poesia come esercizio di una conoscenza totale, il mito, per la sua connessione con il sacro, diventa uno strumento espressivo necessario e insostituibile, diventa il significante obbligato di un significato altrimenti indicibile.
Nella poesia La sorgente, eletto il vento a intermediario tra l’uomo e la divinità, viene identificata la sostanza di tale intermediazione nel mito:
Vento che torni, nell’ombra racconti
nuovi miti, invece degli antichi,
narri ai sensi insoddisfatti le infinite mete
dello spirito che a sé stesso è velo…
La riabilitazione del mito non equivale però ad una estrapolazione del suo più complesso contesto culturale, ma è solo un aspetto della più vasta riabilitazione della cultura pagana che, caratterizzata da un’adesione incondizionata alle forme dell’essere, viene ritenuta più carica di vitalità rispetto a quella cristiana, o perlomeno a quello che è divenuto la “civiltà cristiana”. Si legga a tal proposito All’ombra della roccia grigia, che ripropone la figura eliotiana di San Narciso, ma in tutt’altra luce rispetto a quella del poeta di The Waste Land. Attraverso le metamorfosi del santo da pianta d’ulivo a quercia, da quieto pesce a bella ninfa assistiamo ad una dilatazione cosmica del narcisismo, nell’ambito della quale la memoria biologica si fa coscienza e la molteplicità delle forme della vita si riduce alla sua essenziale unità, facendoci apparire illusoria la morte (ogni morte) di Narciso, dovuta alla fascinazione della separatezza del singolo dal tutto. Ma il trapasso dal paganesimo al cristianesimo, sebbene accettato con divino entusiasmo (m’immersi nell’ebbrezza del martirio) delude le aspettative riposte nella metamorfosi e nel movimento, e il santo si ritrova
…testimone della fine;
per una triste alba imperitura;
per un inizio di molle indolenza…
Che questa delusione sia poi ascrittibile all’ipoteca paolina o al compromesso costantiniano, o a entrambi, è questione inappropriata per questa sede, dove va rilevato, invece, come e quanto la poesia di Domenico Turco sia dinamica e corrosiva quando si trova a collidere con la storia. Belle poesie de I limiti e l’immenso, soprattutto nella sezione interna intitolata Angelo infuriato, ne sono la testimonianza più esplicita e convincente. Un interesse, quello per la storia, che nel mondo poetico di Domenico non solo non contraddice la sua più fertile e congeniale vocazione metafisica ma ci sembra addirittura che in essa trovi forza e ragione, visto che gli uomini, gli abitatori dei limiti, i prigionieri del tempo
…fluttuano nell’acqua
come uccelli in mezzo al vento,
soddisfatti del quieto
elemento,dello scrigno del mondo
Lo scrigno magico).
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