domenica 24 marzo 2013

DIEGO GUADAGNINO, La poesia di Domenico Turco ne "I limiti e l'immenso"

Resterebbe deluso chi, per suggestione del suo titolo, volesse cercare appigli consolatori in questo libro che sin dal 'frontespizio' ci preannuncia un'arte che, nulla concedendo alla consolazione o all'evasione, mira a dissolvere i fantasmi creati dalla nostra debolezza nei confronti della vita. Non c'è niente tanto difficile quanto il non ingannare se stessi ha scritto Wittgenstein: della difficile arte di non ingannare se stesso Domenico Turco ne fa una ragione (o forse la ragione) del suo poetare, per cui se i poeti della antichità intraprendevano il loro canto invocando ispirazione, il nostro esordisce chiedendo disincanto.


O dea non adescare questa mente
Con l'attesa di un'altra vita
Con l'oro di un più gentile domani


Leggiamo in ALLA MUSA: FRONTESPIZIO, componimento che, posto fuori dalle quattro sezioni che formano il libro, vuole essere programmatico sui temi e riflessivo sul senso dell'opera poetica.
In virtù di questo attento sottrarsi alla comune mitologia del quotidiano, il poeta nella sua lucida solitudine può constatare Intorno a me l'illusione/profonde un dolore straniero e dichiarare senza forsennato orgoglio, ma con pacata padronanza di se stesso:

La mia arte elude le voci d'oro
Dei galli mattinali, dei sereni veltri
Che cercano facili prede
E delle aquile, mai viste.


Ciò non vuol dire, tuttavia, che la sua arte sia ascetica negazione di immagini e di sensazioni in omaggio a un desiderio di deserto, perché è, sì, sottrazione ma dei contenuti di una coscienza pietrificata attraverso atti quotidiani, e , dunque, un aprire le porte della percezione, un aprirsi all'intuizione poetica, che è anche epifania, rivelazione: perciò, grato di tale dono, il poeta può ben dire alla sua Musa:

…la tua invisibile figura
Mi rende infinitamente felice,
Infinitamente saziato
Ad un oceano d'innocenza e di giovinezza.


E' mosso da questa volontà d'autentico che il poeta vive l'approccio con ciò che lo circonda, approccio tematizzato in VITA DI CRISTALLO, dove trovano posto poesie quali Come il vento selvaggio la tua voce, indirizzata al padre, Per il primo narciso, dedicata alla sorella, Esilio d'anima, Xenos, estremo lamento, poesie che scandiscono il mondo del sentimento e degli affetti, delimitando il territorio entro cui di consueto nascono e finiscono quei verbali poetici della fenomenologia dell'io che sono le raccolte liriche.
Freud ci ha insegnato che l'uomo rinuncia alla felicità in cambio di un po' di sicurezza: questa sicurezza, prezzo del tradimento nei confronti di una vita meno falsa, questa sicurezza che si nutre con gelidi segni finisce per assumere il profilo dell'antagonista che occorre vincere per indovinare l'immenso di là dal suo angusto orizzonte. Il mondo dei limiti sorge da un'opportunistica scelta di certezze e sedimenta nella banalizzazione di tutto ciò che ingloba.

…Lo so: i cantori
Acclamati dalle folle comuni
Cantano di cose consuete, cose
Simili a fischi di cornamusa.
……………………………
Io, invece, cerco nel mio silenzio
Il bagliore di un pianeta migliore,
Il riflesso di un'altra, mistica dimensione.


E' questo silenzio pregno d'energia che forgia l'invito dionisiaco a rompere la rassicurante patina delle abitudini mentali, il delirante sciame /Di immagini indistinte, evidenziando un atteggiamento, un rapportarsi al mondo che fonde in sé le polarità della contemplazione e della rivolta. Ecco, allora, l'esplodere di Incendiatevi, vite, il tempo è distruzione, lucida e decisa esortazione che, rilevando da tutta una tradizione non soltanto poetica e filosofica ma anche mitica e religiosa, l'elemento simbolico del fuoco, ne decanta la funzione rigeneratrice, purificatrice. Ma lo sguardo carico di consapevolezza non si arresta alla demolizione del mito della realtà quotidiana, va oltre, individuandone l'origine nei sensi, intesi quali strumenti d'autoinganno. In un testo inedito di Domenico trovo un ossimoro che con chiarezza lapidaria recita La verità è menzogna confermata/dai sensi…
L'opera si presenta costellata di allusioni alla dimensione metafisica, valga per tutte la bellissima strofe conclusiva di Oltre i limiti:

Quante frenesie, quanti sogni
Si levano e cadono nella mente.
La mente esitante che nulla sa;
E mentre cade nel baratro scopre
L'arte di volare. Finchè non si libra
Oltre i limiti, in un altro cielo.


Qui in termini di grande poesia, troviamo espresso il movimento di accesso allo stato mistico, che sta alla metafisica come la pratica alla teoria.
Ma Domenico non è un mistico, è un poeta, e la poesia necessita del supporto dell'immagine, laddove il mistico in assoluto la trascende. La poesia può senz'altro essere cammino verso l'esperienza della trascendenza, ma mai può coincidere con essa; e quando il mistico è anche poeta, cosa che accade spesso, lo è sino alla soglia dell'indescrivibile; per cui, sebbene ricco di aperture sulla trascendenza, I LIMITI E L'IMMENSO non è una salita del monte Carmelo, trovando le sue ascendenze mistiche nel Rimbaud della LETTERA DEL VEGGENTE, dove il poeta di Charleville ha tratteggiato in poche ed essenziali frasi la figura il metodo e lo scopo del poeta-veggente, indicando nello sregolamento di tutti i sensi la via per giungere all'ignoto e proponendosi come eroe e cantore di se stesso. Joseph Campbell ha definito l'eroe come colui che ha saputo superare le proprie limitazioni personali e ambientali e raggiungere le forme universalmente valide: questo tipo di eroismo, che troviamo preconizzato da Rimbaud, sembra essere quello che nell'opera di Domenico Turco viene affidato alla figura e al mito di Orfeo nella sezione intitolata L'AUREA ZONA.
L'imperativo di cambiare la vita formulato da Rimbaud, anima l'eroismo orfico protagonista di questa sezione, dove il mitico cantore che incantava i defunti e blandiva gli animali è colto nella sua discesa agli inferi.
L'inferno non è soltanto il suo stato soggettivo, la sua vita squassata in carni inferme, ma si dilata a tutto il nostro mondo attuale dominata dall'avidità e dalla violenza. In La fine di Dio? vediamo scorrere sotto ai nostri occhi in angosciata disamina Oriente Occidente Settentrione e Sud: in essi non sussistono felici regioni di saggezza, né si riscontrano le città del sole, che l'umanità nel suo recentissimo passato ha creduto di vedere. Le Torri Crollanti dilatano grandemente/ al tramonto. Crescono le loro basi spettrali, dice il poeta descrivendo scenari che non possono non evocare in noi il ricordo delle ideologie generatrici di miraggi collettivi.
Perduto lo smalto delle dottrine, il presente ci appare desublimato nella sua brutalità:

Ad Occidente tra figure sitibonde di sangue,
Oro, petrolio, dà floridi frutti
Frutti la Contesa, logora vinti e potenti.


E' questo l'inferno in cui l'Orfeo, nostro contemporaneo, tra le alterne vicende del sentire, come avviene nel paradigma esistenziale di ogni uomo, perde e cerca la sua Euridice. Come l'individuo dell'universo kafkiano accumula il suo esistere attraverso ripetuti tentativi di ricerca di una verità che faccia finalmente leva sul mondo, anche l'Orfeo di queste pagine è un cercatore di luce, ma con una enorme differenza: in Kafka, alla tenace volontà di chiarezza si accompagna sempre un disperato presentimento di sconfitta, nella poesia di Domenico Turco, invece, anche se Il giorno dimentica l'innocenza, Orfeo può sempre dire:

E' ancora mia la visione del cielo
Volata via nel buio della sera,
E' ancora mia la fede di restare.


In una e-mail del 5 gennaio scorso, Domenico mi scrive:
"Molte persone criticano la mia poesia perché la trovano pessimistica, o oscura, in ciò cogliendo solo un aspetto limitativo e limitante del mio operato. Peggio è quando ci si profonde nel rintracciare le cause del mio pessimismo nelle mie condizioni di salute. Per cui, tanti riferimenti allo spleen, alla monotonia di tutti i giorni, o a quello che Montale chiamava il male di vivere, vengono considerati lamentele di un infelice, cosa che è lungi da me, dal mio carattere e dalla mia grinta, benchè sia uno spirito contemplativo e non un uomo d'azione.
L'incrollabile stoicismo è tipico di chi è costretto dalle avversità della vita a far fronte alle sue forze, ed io, come tutti i membri della mia famiglia, sono abituato a combattere. La prego di tenerne conto in vista della presentazione".

Aldilà, e sicuramente meglio di quanto io in questa sede possa dire, la vibrante sincerità di queste parole vive e traluce in ogni pagina dell'opera, che riesce a coniugare egregiamente lo spirito combattivo alla contemplazione, proponendoci un felice superamento di quella che è una delle tante dicotomie create dalla mente occidentale: l' azione/contemplazione, in realtà la duplice espressione di un unico modo di essere. E non a caso Domenico, sul piano della sua ricerca non solo estetica ma anche speculativa, si sente particolarmente coinvolto da questa tematica, come ho potuto constatare attraverso un nutrito scambio di corrispondenza che abbiamo avuto relativamente al confronto tra l'Arjuna, eroe protagonista della Bhagavad Gita e il Coriolano di Shakespeare e di Eliot.
Questo spirito combattivo ,che tanto tiene il nostro poeta e a cui tanto egli tiene, ne l'ANGELO INFURIATO diventa tensione etica, che nelle vicende esemplari di personaggi del passato sviscera la natura archetipa di un male a tutt'oggi operante in mezzo a noi. Solo all'umanità redenta tocca interamente il suo passato scrive Walter Benjamin nelle sue TESI DI FILOSOFIA DELLA STORIA ad icona delle quali scelse un dipinto di Paul Klee intitolato Angelus Novus.
Impressionante coincidenza con Domenico, che pur con diverse motivazioni, intitola ANGELO INFURIATO il capitolo dove spende la sua filosofia della storia; e coincidenza non soltanto iconografica, ma anche di pensiero. Le note di Benjamin bene starebbero a chiosa sul margine di poesie quali La Fenice, dedicata a Giordano Bruno, o Socrate nell'imminenza della fine, poesie che nel mondo de storia passata e presente stabiliscono il tòpos dell'etica per eccellenza, il luogo dove il poeta non può fare a meno d'incontrare la parte dolorante di ognuno e di sé stesso in quelle figure che per destino sono diventate il simbolo dell'uomo mortificato ma non arreso.
"Il passato - scrive ancora Benjamin - reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C'è un'intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra . A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto." Il passato, dunque, attende di essere riscattato dall'oggi:

il Nolano muore ancora/ Quando la verità è tradita, quando l'oro del giorno è sottratto ai vinti'. E Socrate, un uomo che pensa pensieri/in un mondo che non sa. Un mondo di immagini/ che dimentica la sua vera immagine, capovolgendo i nostri concetti consueti di vita e di morte, afferma che condanna non è il lasciare il mondo, ma il restarvi Finchè mentire/ sia l'unico modo per dire: io sono.

Quest'ultima precisazione, riferibile e ogni tempo, radicabile in ogni epoca con ferisce al Socrate di Domenico Turco una valenza ammonitrice che veste di nuova luce il Socrate platonico. Non è alla sua morte , per quanto lucidamente e nobilmente accettata, che il Filosofo rivendica la nostra attenzione, quanto piuttosto alla menzogna fattasi istituzione e soggettivamente elevata a verifica esistenziale con cartesiana metodologia. Anche Telemakos ha parole che prevengono ogni tentazione di facile evasione giustificata da una qualche malintesa ricerca di assoluto, allorchè dice:

L'infinito non è dei cieli;
La sua sede si rivela nel mondo:
E' conoscenza, veglia, sensazione.

Ma dove il flusso del divenire storico diventa in se stesso oggetto di riflessione poetica e metafisica è ne LA VEGLIA DI SOTTILE L'ALCHIMISTA, poemetto complesso di contenuti e di struttura, sicuramente meritevole di autonomo e più approfondito studio di quanto sia possibile fare in questa sede.
Irrilevante (se non addirittura sviante), ai fini della sua intellegibilità, è sapere che il personaggio di Sottile è ripreso nominalmente dalla commedia di Ben Jonson, nella quale il drammaturgo elisabettiano, lungi dall'apprezzare l'alchimia, dà dell'alchimista un'immagine caricaturale, al contrario di Domenico Turco che tiene in grande considerazione la filosofia ermetica, da cui discendono i continui riferimenti simbolici all'oro riscontrabili nei suoi versi.
Nonostante la sua qualifica, Sottile non ci viene presentato in un laboratorio ingombro di alambicchi, fornelli, mortai, fiale, crogioli: la sua opera si svolge nello spazio dell'anima, crogiolo insonne del destino. Alla sua destra fluttua un fantasma che lo guida: è l'ombra di Tiresia, il Cieco/ che sa vedere oltre i limiti amore sorte/ e morte.
Le due maschere, per dirla in termini psicologici, rappresentano la coscienza nelle sue polarità di destino individuale e dimensione atemporale; Tiresia è il trascendente che talvolta ci raggiunge in una zona ignota di vaga percezione.
Ci raggiunge come nel mito pagano di Zeus e Danae, il divino si fa pioggia d'oro e s'incarna nel grembo di Danae, da cui dovrà nascere Perseo, l'eroe destinato ad affrontare e uccidere mostri.
Lo stesso processo di trasformazione subisce il Logos cristiano allorquando scende nel tempo e si fa storia, greve materia pullulante di paura alienazione violenza, pietra nera su cui l'uomo dovrà alchemicamente spendere angoscia sangue e fatica per trasmutarla in oro, in luce.
L'alba che albeggia, il risveglio di Iride nella veglia e nel travaglio di Sottile sono i segnali che dà l'Opera nel suo trapassare dal nero al bianco. Dicono i filosofi ermetici che quando affiora l''albedo' nella materia vuol dire che la vita ha vinto sulla morte.
Sullo stesso tracciato filosofico di Sottile, sembra snodare il suo monologo il Napoleone che in BONAPARTE: COMMIATO DALL'ISOLA, dismessi i panni dell'esserci, tra ricordi e riflessioni oscillanti al tentativo di un'impossibile certezza di bilancio, coglie nel suo intimo una voce che lo sospinge al fiducioso epilogo di un Dio ordinario,/un Dio privo di templi e liturgie ma vero,/ liberale, animato di buoni intenti.

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