Avvocato penalista del foro di Agrigento, Diego Guadagnino esce soltanto
ora allo scoperto, pubblicando il bilancio personale di vent'anni e più
di appassionata riflessione sul proprio esistere; una riflessione
privata che via via si è fatta discorso pubblico, apertura totale nei
confronti di eventi sperimentati e non semplicemente immaginati. In
questo senso la voce dell'autore non ha nulla di approssimativo: si
lega, anzi, in modo indissolubile alla professionalità del legale, di
cui può dirsi quello che disse Borges dell'amico ginevrino Maurice
Abramowicz, amante e cultore di letteratura: "Ginevra ti credeva un uomo di legge, un uomo di sentenze e di processi, mentre in ogni parola, in ogni silenzio, eri un poeta".
Poeta: questo vocabolo che davvero in pochissimi, al giorno d'oggi, si
sognerebbero di scrivere in segno di rispetto con la maiuscola iniziale,
è forse l'appellativo più confacente a uno scrittore che, beninteso,
non si identifica affatto coi valori borghesi dell'avvocatura: questi si
possono all'apparenza adottare, ma restano pur sempre lontani dal senso
e dallo scopo della vita.
Della professione forense egli afferma "che a fatica negli anni l'ha
apprezzata / e solo perché al mondo lo ha nascosto", gli ha cioè offerto
una sorta di guscio, di protesi identitaria grazie alla quale
continuare ad essere se stesso.
Se l'esperienza dell'avvocatura aiuta a comprendere un aspetto
fondamentale della ricerca Guadagnino, questo e proprio l'acume, la
sottigliezza psicologica che gli consente di cogliere e trasferire sulla
pagina il segreto meccanismo dell'agire umano, senza sotterfugi,
spontaneamente affidando al "giudizio" il senso ultimo del proprio
lavoro.
Poesia è, in effetti, per lui un affare assai serio: "Riunire in un solo
cuore la durezza della pietra e la semplicità del bambino per
evidenziarne le somiglianze; smorzare un dolore in una chiarezza;
scopirci ciechi di normalità; rivelarci che la solitudine è stato
immaginario; cambiare la qualità del silenzio, sono alcune tra le tante
cose che sa fare.
A volte può anche intravedere il disegno del ricamo di cui la vita,
questa vita, è il confuso indecifrabile risvolto. Non ha mercato: questo
è il suo valore".
Difficile produrre una dichiarazione programmatica più chiara, quasi impossibile non condividerne le conclusioni.
E tuttavia, sebbene la poesia, quella vera, vada solo accompagnata e mai
spiegata, qualcosa resta da aggiungere dal punto di vista della
struttura libro e dell'esercizio di stile che lo impronta.
Anche in assenza di una cronologia, è infatti agevole rinvenire le
tracce dì una crescita interna nella disposizione dei testi, che si
organizzano secondo spontanee aggregazioni.
Così alla parte prima, dedicata alla formulazione di una poetica precisa — lo stesso titolo, Trasmutazione, suggerisce il passaggio dalla materia vile al nobile metallo, paradigmatico dell'opus
alchemico — corrisponde il più difficile travaglio metrico, il più
serrato dispiegarsi di artifici tesi a forzare una compagine verbale
traboccante.
Nella sezione successiva, Scalo ferroviario, il discorso si
amplia sotto la spinta di un consuntivo che appare sempre più
stringente, in uno spazio meditativo in cui vigono altre regole e
diverse modulazioni: è il momento di liriche kafkiane e pirandelliane
come La tana e Il luogo karmico, dove il dovere si rivela abitudine schiacciante e Agrigento assurge a teatro di un mondo assurdo eppure reale e necessano.
Un cambio di frequenza, dunque, che tende ad accentuarsi nella terza sezione dedicata ad Adamo,
l'uomo cosmico sospeso tra fango e grazia, tra gli elementi essenziali
del suo stesso essere nel tempo. E se il fango è inganno, la grazia è
mistero.
Solo la reductio del fango, intesa come lacerazione, distacco
dalla terra, riscatto dal divenire, apre le porte al soffio della vita,
presente tanto negli esseri umani quanto nei fiori di giardino, come lo
splendido ibisco della quarta parte: "Come bimbo di sé lieto e sicuro /
l'ibisco fiorirà nel tuo giardino / vermiglio solitario contro il muro /
dorato al primo sole del mattino. / / Cielo e terra confusi in fiore
puro / canteranno con voce di rubino / l'amore che non trema del futuro /
bruciando nell'istante il suo destino".
Iniziano, insomma, a intravedersi paradossali "spiragli d'infinito",
segno di una speranza che neppure più corrosivo degli epigrammi
("Nessuno / sfugge al niente / impunemente") riesce a cancellare. Sta di
fatto che all'organismo della raccolta resta legata la funzione
innovativa di ogni componimento come l'interno svolgimento del dettato,
che procede a un sorprendente arricchimento dei suoi mezzi espressivi,
dalla concentrazione ritmica alla distensione del canto alla conclusione
epigrammatica, in un'alternanza ininterrotta di forme differenti.
Si tratta di una qualità polifonica che non è certo il minor pregio di
questa poesia, e che assicura — ne sono certo — alle parole di
Guadagnino una granitica difesa nell'agone letterario.
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