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Andrea Guastella, Il muro e la notte, ISMECAlibri, 2011
Raggiungo il caro Diego Guadagnino dopo un viaggio in
auto di un paio d’ore circa lungo le pessime strade siciliane.
L’estrema, quella che da Licata va alla sua Canicattì, è una ripida,
stretta mulattiera: un tormento per il volante ed i freni, lenito appena
dagli scorci intravisti di un panorama superbo. Diego, che mi accoglie in paese, sotto la chiesa del santo che porta il suo nome, mi offre un caffè ristoratore.
Cambiamo vettura. «Accompagnare un amico in città è
come rivedere gli stessi luoghi con occhi nuovi», dice, mostrandomi
gioioso la vaneddra in cui è nato, una viuzza lastricata di
pietra nera dove ancora si incontrano uomini – persino un suo vecchio
compagno di scuola – ma è alquanto più facile incontrare fantasmi.
Infine, la casa. L’abitazione dei Guadagnino non sorge né in periferia
né al centro. È un edificio poco vistoso quanto spazioso e accogliente
che Diego divide con la madre, un fratello e una mole di libri e quadri.
È qui che si svolge la prima parte, quella estemporanea affidata al
registratore, del nostro colloquio. La seconda e definitiva, come si
addice a un accorto avvocato, quale Diego appunto è, appartiene alla
scrittura. L’argomento è, anzitutto, il libro d’esordio di Diego, Trasmutazione (Libroitaliano, Ragusa 2007), che ho avuto il piacere di introdurre e ospitare nella collana “Due righe”.
Iniziamo da un paradosso. Nel testo d’apertura di Trasmutazione si aspira a una parola che «scaturisce / dal silenzio ch’è cenere di brama». Come può nascere la parola dal silenzio?
La parola poetica non può che nascere dal silenzio dell’emotività.
L’emotività ci dà un’immagine distorta del reale, ci
esilia nel mondo dell’inganno, che è mera proiezione della nostra brama.
Ecco perché bisogna incenerire la brama e lasciare che da tale cenere
scaturisca la poesia. Aggiungi che noi viviamo in un mondo artificiale,
in un mondo che asseconda ed esaspera i desideri. Pensa alla pubblicità,
alla televisione che manipola la parola e ne fa uno strumento di
stupore e di attrattiva. La poesia nasce e vive al di là di questa
fantasmagoria di falsità. La poetica del marinismo si concentrava nel
verso «È del poeta il fin la meraviglia»: quella poetica, oggi, è
adottata dal pubblicitario, una presenza più che invadente nella vita
attuale.
Si assiste dunque da subito a un combattimento – quasi un medievale contrasto – tra l’io e le passioni.
Perché andare a rovistare nel medioevo? La psicologia
junghiana ci dice che ogni sconfitta dell’Io è una vittoria del Sé. La
passione è sofferenza dovuta a un rapporto sbagliato col mondo e con gli
altri. La parte più solida della nostra identità è fatta da ciò che
siamo riusciti a sottrarre a tale sofferenza. La passione irrigidisce la
nostra piccolezza, le nostre meschinità, il nostro finto amore fatto in
ultima analisi di brama e di sesso, mentre andando oltre c’è la
possibilità di incontrare l’infinito, che, attenzione, non è un’immagine
letteraria, gratuita ma la capacità di vivere l’esperienza in una
prospettiva che non coincida con la coscienza del nostro limite. Il
dramma dell’uomo è voler raggiungere questa dimensione senza voler
rinunciare alla propria piccolezza. Dostoevskij ne L’Idiota ha
rappresentato questa lotta: il principe Mysckin è portatore di una
parola, di una dimensione spirituale che mette a nudo le passioni degli
altri evidenziandone la cecità e la meschinità.
Qualcosa di simile al pirandelliano rapporto vita-forma.
Tutta l’opera di Pirandello sviluppa la tragedia
dell’essere che si fa storia, dell’idea che si fa realtà; da Mattia
Pascal che verifica tragicamente il miraggio della fuga dai problemi
quotidiani al Ciampa de Il berretto a sonagli che si sente
drammaticamente perduto nel momento in cui la ipotesi del tradimento
della moglie diventa reale… Ma Pirandello si ferma al tragico e cerca
accomodamenti paradossali e farseschi, con risvolti spesso umoristici.
Il concetto di trasmutazione alchemica gli è estraneo, al contrario di
Kafka, che possiede un’apertura di ricerca che possiamo chiamare
“religiosa” e che gli proviene dalla tradizione cabalistica. Perciò mi
sento più contiguo a Kafka.
Ecco un altro dei tuoi amori, il Kafka del Processo. Niente di strano, visto che sei un avvocato.
Il mio amore, come tu lo chiami, per Kafka non ha alcun
rapporto con il mio essere avvocato. Ho letto Kafka prima di scegliere
questa professione, nel primo anno di università, e fu un amore a prima
vista; leggevo tutto quello che riuscivo a trovare su di lui: le
monografie di Giuliano Baioni, di Remo Cantoni, di Marthe Robert. Quando
a Palermo attraversavo i vicoli fatiscenti, con interi caseggiati
sventrati dalle bombe della seconda guerra mondiale, immaginavo di
vedervi la Praga
di Kafka; e fu una grande sorpresa, qualche anno più tardi, trovare che
Praga, in certi angoli della città vecchia, con le sue chiese barocche e
i suoi vicoli sporchi, somigliava molto alla Palermo di quegli anni.
Oggi il volto di Praga è senz’altro cambiato, ma al tempo in cui la
visitai io era come se il regime comunista avesse fermato il tempo,
ibernando un’atmosfera quale doveva essere al tempo di Kafka.
Che cosa significa per te l’esempio kafkiano?
Prima di ogni cosa, la scrittura come tentativo di
sopravvivenza. Con Kafka nasce la pratica della scrittura come terapia
esistenziale; egli non scrive mai sollecitato dal desiderio di
pubblicare (lo stesso può dirsi di Kavafis e di Pessoa), ma scrive per
non dissolversi nella inconsistenza del quotidiano, per non essere
inghiottito dalla meccanicità e dai meccanismi della normalità. In
questo identificare la propria vita con la scrittura, egli diventa il
principale personaggio della sua opera e non a caso prima di morire
prega l’amico Max Brod di bruciare tutti i suoi manoscritti, che avevano
evidentemente esaurito la loro funzione.
Dalle «strade lastricate di tempo e di memoria» del
tuo paese il «labirinto di profetici sogni» della Praga di Kafka, in
fondo, dista poco.
Vivere in un paese vuol dire scontare la propria
solitudine. Nel tuo rapporto con gli altri prevale l’osservazione
silenziosa e non comunicante, l’esperienza diventa qualcosa che sta tra
l’apparente omologazione esterna e la speculazione interiore; è un mondo
un po’ folle a pensarci bene, ma la follia è inevitabile e ogni
qualvolta si vive in un ambiente che non condividi e non ti condivide, a
lungo andare ti viene il sospetto di essere diventato per i tuoi
concittadini un tipo un po’ eccentrico che invece di dedicarsi a
progetti economicamente più proficui si mette a scrivere poesie.
Canicattì è una città con una grandissima vitalità che, però, si esprime
soltanto nel pragmatismo economico senza riuscire ad elevarsi in amore
per la cultura, in propensione all’estetico. D’altronde basta osservarla
dal punto di vista urbanistico, nelle forme della sua crescita più
recente, per avere conferma di questo grosso limite. Jean Paul Sartre
diceva che chiunque può fare denaro, ma ci vuole cultura per spenderlo:
ecco, il canicattinese è senz’altro intraprendente, sa guadagnare bene,
ma non riesce a spendere altrettanto bene. Quindi, come vedi, Canicattì
non è vicina alla Praga di Kafka, città culturalmente vivace allora; nel
mio paese c’è una ragione in più per sentirsi soli. La solitudine di
Kafka ci appare svincolata da cause ambientali esterne, ha un carattere
marcatamente metafisico che la eleva a simbolo della condizione
dell’uomo.
La Canicattì in cui vivi è dunque quello che per Empedocle fu Agrigento: un «luogo karmico».
La leggenda di Empedocle, e quindi la sua figura,
rappresentano un archetipo dell’umano, che è l’incarnare al massimo la
coscienza del divino sulla terra. La tensione tra l’essere e il dover
essere, che in varie forme vive in ogni singolo uomo, indipendentemente
dal grado di consapevolezza che questi ne possa avere, tende a ridurre
la contiguità tra l’umano e il divino. È un filone, per niente
sotterraneo, della cultura occidentale, da Blake a Kafka. Ogni luogo in
cui ci è stato assegnato vivere è karmico, è un laboratorio evolutivo. Il luogo karmico è
una poesia metafisica e pirandelliana insieme; metafisica in quanto
riguarda la condizione dell’uomo sulla terra in assoluto, pirandelliana
in quanto Agrigento assurge a teatro di un mondo assurdo, impenetrabile
alla ragione.
Questo mondo, come Empedocle, anche tu hai provato a
disertarlo. Penso ai viaggi di cui parli in un testo intriso di
mitologia sessantottina come Età fuggiasca: «L’astratta gioventù,
l’età fuggiasca / da questo formicaio di smarriti, / con le suole di
vento e i pugni in tasca / l’aurora s’inventò dei propri miti. // Eroici
viaggi col sacco a pelo / seguivano fedeli lo stradario / compreso tra i
confini di quel cielo / che pare terra ed è l’immaginario; // viaggi
che volevano arrivare / nell’assoluto cuore della vita, / che finirono
invece dentro il mare / dei labirinti d’un età sfiorita. // Passati come
passa un fiume in piena, / lasciarono la mota e quei detriti / sui
quali si posò l’amata pena / che nel tempo ci fece più puliti».
Più che nell’Età fuggiasca, lo spirito della generazione sessantottina si trova ne La tana,
una lirica in cui dichiaro l’impossibilità di identificarmi con una
tradizione borghese e, quindi, con i valori borghesi, con i quali si può
convivere, che si possono “apparentemente” adottare, ma che restano pur
sempre lontani dal senso e dallo scopo della vita. Della professione
forense affermo che «a fatica negli anni l’ho apprezzata / e solo perché al mondo mi ha
nascosto», mi ha cioè fornito, come tu stesso hai scritto, una sorta di
guscio, di protesi identitaria grazie al quale continuare ad essere me
stesso. La mia generazione, quella che ha fatto il Sessantotto
concependo l’esistenza come ricerca di un’alternativa alla status quo,
come pulsione chiamata a cambiare tutto, non può che collocarsi ai
margini di una società fondata sul profitto, sul successo a ogni costo.
Margini che non sono certo quelli del reietto o dell’impotente, i quali
sognano il centro; sono, piuttosto, la linea che bisogna oltrepassare
per ampliare l’orizzonte in funzione della crescita. Questo è un
concetto maturato dall’arte, ma il Sessantotto è stato il movimento che
più di ogni altro ha cercato di abolire ogni confine tra l’arte e la
politica: «l’immaginazione al potere», è stato detto.
Forse la tua generazione voleva tutto e subito, ma
«l’ignavia e la fretta», come soleva dire Kafka, «ci impediscono di
essere perfetti». D’altronde, non «È l’uomo più ordinario / quello che
alla fine / risulta il più divino» (L’ammonimento)?
L’ammonimento del dio ad Empedocle sull’orlo del
vulcano rappresenta il pericolo a cui ci sporge lo scarto tra i tempi
dell’evoluzione e i tempi della nostra impazienza, mai commisurata alla
nostra volontà.
Una verità che, in questa e altre liriche, esprimi con concisione epigrammatica, alle soglie dell’afasia.
La bellezza della poesia sta nella sua parsimonia
verbale, è la parola rifondata dalla verità. Un componimento lungo
necessariamente si allontana dalla poesia, diventa qualcos’altro, perde
il bagliore dell’illuminazione. Don Juan è un grande lettore di libri e
dice a Castaneda che ogni poesia consta dei primi quattro versi, che
vengono medianicamente dettati al poeta. E non è detto che questi li
capisca.
L’ultima ottava di Trasmutazione, ad esempio,
era in nettissimo contrasto con tutte le altre composizioni del libro,
dove primeggia una concezione del dolore inteso come esperienza
necessaria della trasformazione: «Mi chiedo quale vita si guadagni / a
strapazzare i giorni di fatica / a tessere la tela come i ragni / a
ragionar con mente di formica. // Non è di certo il chicco, né la mosca /
(che nutrono semmai il logorio) / ma l’unico guadagno che conosca / è
il rendere più prossimo l’oblio». È un testo che hai deciso di
espungere, ma vorrei lo stesso un tuo commento.
Questa poesia portava in testa lo Zero, che è il numero
del Matto degli Arcani Maggiori dei Tarocchi. E ciò perché il Matto si
pone al di fuori del lavoro utile alla operazione alchemica, rappresenta
l’accettazione del fallimento, la resa all’insensatezza, lo smarrimento
senza redenzione, la preventiva vanificazione dell’esperienza, la
tentazione della rinuncia al lavoro. È una prova a cui l’uomo è esposto.
Nella poesia è leggibile tale smarrimento, che fa parte del bagaglio di
esperienze di ciascuno: l’unica utilità che la vita possa avere sembra
quella di ridurre la distanza dalla morte, di contrarre lo spazio e il
tempo che ci separa dall’oblio. Tale sentimento, però, appartiene a un
momento. Il momento del Matto.
Un’ultima domanda. Adamo chi è?
Adamo è l’uomo che sa di essere permanentemente sospeso
tra il fango (la creta) e il soffio divino (lo spirito), lacerato e
combattuto tra questi due elementi costitutivi del suo essere nel tempo.
E se la creta è l’inganno, lo spirito è il mistero. Soltanto la
riduzione fino alla scomparsa – vissuta come dolore, lacerazione,
distacco dalla terra, riscatto dal divenire – della creta, diventa
graduale conquista di ciò che è mistero. La creazione dell’uomo, lungi
da essere definitiva, è l’inizio di un percorso che richiede il suo
lavoro, la sua attiva cooperazione
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