“Nel turbinoso agitarsi de’ grandi eventi che si successero in Europa all’inizio del corrente secolo, la Sicilia, chiusa intorno dal mare, visse d’una propria e separata esistenza; ebbe pure le sue proprie vicende, ma al di fuori vi si badò poco o nulla, e anche adesso in terraferma si conoscono appena: innanzi a’ trionfi del primo Impero napoleonico, al riscuotersi delle conculcate nazioni, al crollo inatteso e alla portentosa caduta dell’immane colosso, chi poteva, infatti, ricordarsi d’un piccolo popolo, straniero a’ movimenti d’allora, che aveva altre volte rappresentato la sua parte nel mondo, ma che già da buon pezzo rimaneva alla estremità del Mediterraneo, diviso e negletto?” ( I. La Lumia, Storie siciliane, vol. IV, pag.393, Palermo 1969).
Così Isidoro La Lumia descrive la vita appartata della Sicilia in anni gremiti di sconvolgimenti politici quali quelli che travagliarono l’Europa tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. Detta in questi termini, la diagnosi appare una semplice constatazione geopolitica che non trascende in giudizi antropologici. Ma un secolo dopo, nel tentativo di decifrare le ambiguità di una guerra di conquista chiamata “risorgimento”, Giuseppe Tomasi, azzardando un indebito salto dalla geopolitica alla psicologia di massa, s’inventala staticità della Sicilia e l’individualismo del popolo siciliano, ancorandoli non solo a fattori storici ma anche climatici e caratteriali. Addossa ai siciliani, “stanchi e svuotati”, il fallimento di una “rivoluzione” che passa sulle loro teste lasciandone immutata la condizione. La storia ha offerto un’opportunità rivoluzionaria e loro l’hanno sciupata, prigionieri della atavica inettitudine che li segna. E’ questo in sintesi il suo ragionamento, che lo rivela scrittore fortemente ideologico. L’invenzione di un popolo rassegnato, e nemico di chi lo vuole scuotere, in realtà serve a proteggere dall’intelligenza critica una guerra coloniale contrabbandata per liberazione e risorgimento.
All’uscita del romanzo, la filosofia del gattopardismo, contornata dalla barocca cornice letteraria, imponeva a tal punto la sua forza suggestiva da innescare una querelle,i cui echi ancora oggi sentiamo talvolta riaffiorare in dibattiti politici o culturali. Frutto eccellente di quella polemica fu Il consiglio d’Egitto,il romanzo storico ambientato nella Palermo della seconda metà del Settecento, che in tanti ritengono il capolavoro di Leonardo Sciascia e che fu subito battezzato l’antigattopardo. Narrando l’impostura dell’abate Giuseppe Vella, che fa entrare in apprensione i nobili siciliani, col minacciare la legittimità degli atti di proprietà dei loro feudi, e, rievocando l’epilogo fallimentare di un complotto giacobino capeggiato dell’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, lo scrittore di Racalmuto proponeva la lettura di una Sicilia tutt’altro che sprofondata in un torpore metafisico impermeabile ai fermenti della storia.
E sembra ancora riprendere, alcuni decenni dopo, i termini della querelleantigattopardesca Francesco Renda nella sua Storia della Sicilia, conferendo spicco alla figura di un altro giacobino siciliano, il catanese Giovanni Gambini, allo scopo di riallacciare la storia dell’isola all’influenza della Rivoluzione Francese.
Proprio in quegli anni cruciali per l’Europa, a Canicattì un anonimo diarista attende alla registrazione degli eventi che ordiscono la trama quotidiana di un paese di quindicimila anime, il cui perimetro sembra coincidere con quello del suo mondo personale. Per l’interesse che rivolge alle private vicende tragiche o liete dei suoi compaesani, ma più alle tragiche che alle liete, il diario oggi si presenta come un documento che precorre di un secolo e mezzo quella microstoria inaugurata dalla scuola delle Annales. Sono 1386 pagine scritte fittamente che appaiono come un vero tesoro di dati e di notizie per entrare nel cuore pulsante della Canicattì di più di due secoli fa. Tranne le esternazioni moralistico-religiose a cui di tanto in tanto si lascia andare lo scrivente, le annotazioni sono strette all’essenziale, scevre da commenti o riflessioni che potrebbero in qualche modo suffragare la tesi gattopardesca dell’immobilismo o quella illuminista del fermento. Lontano dalla turris eburneadel siculo disilluso agli occhi della Storia e di se stesso, quanto dall’ansia riformatrice di stampo giacobino, il nostro Anonimo con la sua asettica visione ci fa sembrare quella polemica mero esercizio di speculazione intellettuale inventato dalla posterità; ne evidenzia la natura ideologica, mirante, nel primo caso, a eludere le colpe di una classe egemone che non ha saputo e voluto creare migliori condizioni di vita; nel secondo, a suggerire un progressismo illuminista e riformatore che viveva solo nella mente di alcuni intellettuali. Capire queste sovrastrutture ci porta a vedere nel manoscritto dell’Anonimo una specie di grado zero della Storia come siamo stati educati a concepirla, ossia come ideologia applicata. Oggi che viviamo più che mai dentro un ologramma mediatico dove la narrazione prevale sui fatti, il trucco, a chi ha sufficiente disincanto per vedere, appare ancora più marcato. E non a caso uno dei concetti che da qualche decennio a questa parte ci si vuole conculcare è la cosiddetta fine delle ideologie: che è, in realtà, un sapere costruito dalla sola ideologia vincente e dominante, alla quale torna utile proclamare la morte delle altre per proiettare sul mondo la propria narrazione come pura oggettività.
Chi era costui?
L’attenzione spassionata rivolta a manifestazioni collettive e a vicende individuali del paese ci riporta a quella visione di una Sicilia che, per dirla con Isidoro La Lumia, “vive d’una propria e separata esistenza”. La vita di tutti i giorni scorre nelle note con nascite, morti, delitti, adulteri, battesimi, matrimoni, senza tralasciare siccità, carestie, nevicate, temporali, e ancora prezzi del frumento, manifestazioni religiose ed esecuzioni capitali. Il risultato è una specie di comédie humainecon personaggi veri e reali. Gente che, c’è da giurarci, non sospettò mai di essere osservata e fissata dall’inchiostro del discreto diarista, che possiamo chiamare anche cronista: difatti egli è cronista nella sostanza e diarista nella forma, dal momento che le sue note mancano dell’esteso tessuto connettivo della cronaca, pur avendone il contenuto.
La cronaca, che con alterna continuità si protrae per un sessantennio, comincia nel settembre 1792 per arrestarsi al 1852. Per una paradossale coincidenza, la data d’inizio viene a cadere vicina alla battaglia di Valmy (20 settembre 1792), in cui rimasero sconfitte le potenze d’Europa coalizzate contro Napoleone e in occasione della quale Goethe pronunciò la celebre frase “Da oggi si apre una nuova pagina nella storia del mondo.” Quella nuova pagina, in cui s’inscrivevano i principi della Rivoluzione Francese, però, in quel momento sembrava escludere la Sicilia, rimasta estranea al “turbinoso agitarsi de’ grandi eventi” e alla quale “ si badò poco o nulla”.
Per la datazione il diarista adotta contemporaneamente sia il calendario gregoriano che il sistema dell’indizione. Quest’ultima si articola in cicli di quindici anni, a decorrere dal 313 d.C.; ogni singolo ciclo va dal 1° settembre al 31 agosto del quindicesimo anno. Si tratta di un sistema di misurazione del tempo che Diocleziano aveva adottato per rinnovare i tributi e che l’impero Bizantino fece proprio, propagandone l’uso per tutto il Medioevo. Alla data in cui comincia il manoscritto ci si trova all’undicesimo anno del quindicennio iniziato il 1° settembre 1781 e viene così indicato: “Gesù Maria Giuseppe 11 & 1792”.
Certamente sono molti gli interrogativi che l’Anonimo pone; a partire dalla sua identità: chi era? Un intellettuale di paese, verrebbe da rispondere, ritenuto che, in un’epoca in cui l’analfabetismo tra il popolo è la norma, conosce le strutture amministrative dei poteri dell’epoca, i nomi dei loro rappresentanti, nonché i fatti di quanto avviene a Napoli o addirittura a Parigi. Un intellettuale, tuttavia, non a pieno titolo, ma molto sui generis, se si considera che il suo modo di scrivere oltre a martirizzare l’ortografia e la sintassi non disdegna quanto può di fustigare anche la grammatica.
Meno facile diventa collocare il suo ruolo operativo nella compagine sociale canicattinese: se era un laico o un ecclesiastico, se rivestiva qualche carica pubblica, parlando magari qualche volta di se stesso in terza persona, con nome cognome e carica. E sarebbe, questa, ipotesi assai intrigante.
L’anonimato
Meritevole di attenzione a sé è l’anonimato del diarista. Con certezza è da escludere che sia un casuale inconveniente accaduto al manoscritto venuto fuori dopo la sua morte, e intendiamo pagine mancanti all’inizio, o qualche altro specifico accidente che abbia potuto allontanare dall’opera il nome dell’autore, perché si tratta, e si nota, di una scelta perseguita con la perizia e l’accortezza necessari all’impresa . E si direbbe che tale volontà di anonimato sia stata rispettata anche da coloro che sono stati possessori del manoscritto nel tempo più prossimo alla sua morte.
Il primo dei possessori di cui si ha notizia certa, per averlo comprato non si sa da chi, fu Luigi Gangitano Licata (1872-1948), che pare lo tenesse gelosamente chiuso in un cassetto del suo studio nel palazzo di via Carlo Poerio a Canicattì. Morto senza lasciare figli, il manoscritto pervenne agli eredi, a cui Cesare Gangitano lo chiese in prestito, negli anni Settanta, per portarlo a Leonardo Sciascia, che si limitò a indicargli alcuni soggetti che a Palermo sarebbero stati in grado di decifrarne la scrittura. Cesare Gangitano, però, non cercò nessuno, si mise lui stesso al lavoro e dopo due anni lo avrebbe interamente portato nella trascrizione di cui oggi disponiamo.
Una biografia molto scarna di dati, dunque, quella del manoscritto, che rimanda sempre alla volontà di anonimato del suo autore, volontà che si manifesta così tenace da rendere quasi d’obbligo alcune considerazioni su tale scelta. Che non pare discendere da un’indole schiva e riservata, tanto più che il diarista scrive immaginando di rivolgersi a un’ideale platea di lettori, a cui più volte promette di raccontare, come in un romanzo d’appendice, gli sviluppi di una vicenda. Scartando questa ipotesi, bisogna riconoscere che l’anonimato è l’accorgimento protettivo di chi vuole scongiurare il conflitto personale con i propri compaesani. Descrivere realisticamente una comunità significa inimicarsela. La società non ama i propri scrittori, s’è possibile li detesta, e ciò perché lo scrittore la mette di fronte ai propri difetti, ai vizi privati che lungi dal diventare pubbliche virtù causano e mantengono il letargo della ragione. Il ragionamento di Ciampa nel Berretto a sonaglinon è una fisima soltanto dell’uomo siculo, ma un paradigma psicologico valido per tutte le latitudini. Si può dire che ogni comunità lo faccia proprio.“ Ogni pupo vuole portato il suo rispetto,” dice il personaggio pirandelliano “ non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. A quattr’occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo, gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato.” Lo scrittore è colui che ignora questo rispetto dell’apparenza: e dunque è costretto a schermirsi dietro la formula “ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale”. L’Anonimo non solo non usa nomi di fantasia, ma al nome e cognome quasi sempre aggiunge anche paternità e maternità, a scanso di omonimia.
Significativi del coefficiente offensivo del manoscritto, anche a distanza di oltre un secolo, sono due episodi che racconta Cesare Gangitano.
Il primo riguarda il barone Agostino La Lomia, che, ottenutolo in prestito da Luigi Gangitano, lo restituì con una pagina mancante: quella in cui si parlava della gravidanza vedovile di una sua antenata. Strappata la pagina, salvato l’onore, è il ragionamento del barone, ad onta della sua tanto decantata disinvoltura di uomo di mondo, noto alle cronache per sortite eccentriche e amene.
Dell’altro episodio è protagonista lo storico locale Giacinto Gangitano, il quale nel leggerlo vi rinvenne lo scandalo che aveva dato una sua parente, facendosi cogliere dal segretario di casa Gangitano mentre appoggiata a un tavolino “faceva il matrimonio” con un teologo domenicano. Più rispettoso del barone Agostino, lo storico si limitò a cancellare con la stilografica le righe disonoranti. Ma la diversità del colore dei due inchiostri, attraverso la lettura del foglio in controluce, ha vanificato l’intervento, permettendo di leggere la nota nella sua totale integrità.
Se logica e psicologia ci portano a dedurre che a monte dell’anonimato ci sia un normalissimo proposito di autotutela, resta comunque lo stupore per lo zelo speso dal diarista nel coltivarlo con la totale assenza di note personali che possano dire o quanto meno suggerire qualche particolare utile per risalire ai contorni della sua identità. Aspettativa più che legittima, questa, se si considera che siamo nell’epoca in cui la letteratura europea assiste alla nascita diffusa del journal intime, genere che sancisce la frattura dell’io con l’universo e consacra l’appartarsi dell’individuo, che, mentre vede sgretolarsi il guscio di preconfezionate certezze religiose e secolari, comincia a ricercare quotidianamente e col nudo sentire le ragioni della vita. Henry Frédéric Amiel, che citiamo qui ex multis, passò quarantadue anni dei suoi sessanta a compilare sedicimila pagine di diario analizzando e descrivendo le variazioni intellettuali, sentimentali, spirituali e percettive del proprio io. Un esempio agli antipodi del nostro Anonimo, la cui fatica è invece da accostare a quella di un Francesco Maria Emanuele Gaetani marchese di Villabianca, che dal 1743 fino alla morte, avvenuta nel 1802, scrutò la società in cui viveva e ne prese nota nei venticinque volumi dei suoi Diari Palermitani; ma senza fare mistero della sua identità, anzi edificando un monumento a se stesso attraverso la scrittura.
La durata di sessant’anni del periodo raccontato ha fatto ipotizzare a Cesare Gangitano che sia stata più di una persona a portare avanti l’impresa. A sostegno dell’ipotesi, richiama la difformità calligrafica che il manoscritto presenta tra un periodo e un altro. Ma il variare di forma nel corso di decenni, a quanto affermano i grafologi, è fisiologico in una grafia nell’arco di una vita, il che ne fa un indizio insufficiente a minare l’unità identitaria dell’autore. E’ stato osservato che oltre alla forma grafica variano alcune modalità espressive ricorrenti, ma anche in questo caso ci troviamo davanti a un fatto compatibile col naturale evolversi del linguaggio soggettivo (o idioletto, come direbbero gli strutturalisti) nel corso del tempo. Immutati, invece, rimangono per tutti i sessant’anni il livello di cultura dello scrivente, piuttosto basso, e la sensibilità improntata a una stretta osservanza religiosa, due elementi che, pur con qualche margine di dubbio, inducono a propendere per la tesi del singolo scrivente.
L’appellativo di Anonimo, più che meritato, è un titolo che l’autore si è saputo costruire e al quale hanno collaborato il tempo,gli uomini e gli eventi. Visto da quest’ottica, il misterioso diarista di Canicattì finisce per diventare personaggio in quanto Anonimo, personaggio che assume consistenza nella disciplinatissima perseveranza con cui protegge la propria scelta.
Una plausibile identità può essere ricavata di riflesso da quello che sceglie di annotare.
Apparentemente e con le dovute differenze, la sua scrittura è una specie di prodotto ante litteramdell’école du regard; la possiamo paragonare a una telecamera puntata sugli spazi collettivi e soggettivi, pubblici e privati, selezionati dal suo interesse; ma, (paradosso di quella corrente letteraria francese che voleva abolire la soggettività) dato che nei suoi interessi convergono coscienza, cultura, sensibilità, ne consegue che in quella telecamera si possono vedere, di rimando, la registrazione del suo mondo e del suo io. Allora emerge un uomo caratterizzato da un conformismo senza spiragli, una specie di impassibile grande fratello sotto il cui sguardo il mondo scorre per i fatti suoi.
Non provando a immaginare una società diversa, non possedendo prospettive di sistemi alternativi, l’Anonimo appare uno scontato assertore dello status quo, la formula “Dio in cielo e il Re Borbone in terra” racchiude l’ordine delle umane cose che si struttura nella sua mente mentre interagisce col reale.
Un ecclesiastico?
Nel tentativo di individuare le ragioni dell’anonimato, non possiamo scartare l’ipotesi che possa trattarsi di un ecclesiastico: un prete o, più verosimilmente, un monaco, che ci piace immaginare assorto nel silenzio di una cella intento a contemplare la “follia” del mondo cavandone linfa per la sua vocazione spirituale. A farlo pensare sono il “Gesù Maria Giuseppe” sormontato da una croce con cui periodicamente intesta l’inizio pagina; la costante attenzione riservata a tutte le manifestazioni religiose (vestizioni, ordinazioni, quarant’ore, esercizi spirituali, prediche, processioni ); la cognizione esatta dei lavori edili nelle chiese (entità, costo, maestranze , durata) , spesso accompagnata dal nome del benefattore che se ne fa carico; la conoscenza del clero locale, la provenienza, l’ascendenza paterna e l’operato.
Se l’identità ecclesiastica corrisponde al vero, la scelta dell’anonimato si rafforza di un’ulteriore ragione che svetta su ogni altra: l’inviolabilità del segreto della confessione. Diverse vicende, soprattutto se piccanti, potevano giungere all’orecchio del diarista solo attraverso il resoconto penitenziale di un peccatore o di una peccatrice. Di confessionale, p.es., sa il racconto dell’adulterio di Donna Rosa Martines; non solo perché annotato sette mesi dopo il suo verificarsi, ma soprattutto perché i particolari riferiti, come lo stringersi le mani dei due amanti per comunicarsi l’ora dell’appuntamento, potevano essere conosciuti solo dai diretti protagonisti. Tutto il fatto è narrato come vissuto dall’interno, al punto da lasciare sospettare tra le righe la confessione dell’adultera pentita:
Si nota che sotto li 9 febraro ultima domenica di carnevale vi fu serata di ballo nella sala della casa di Sua Eccellenza Principe chiamata il Castello a spese del dottor DonNicolò Contino che allora come Governatore abitava in detta casa, e vi furono diverse mascherate fra l’altre vi era in maschera Don Gioachino Testasecca di Giovanni, ed avendo ballato con la signora Donna Rosa moglie di Don Gaetano Crisci, e figlia di Don Pasquale Martines che si ritrova colà con suo padre, senza lo sposo per trovarsi ammalato con la scabia; si strinsero entrambi le mani, segno che doveva attendere per le ore sette o otto della notte, com’era solito; terminato il festino di ballo alle ore sette circa tutti sene andarono alle loro case, ma ella sene andò la prima di tutti, ed appena giunta cenò e sene andò a letto sola per motivo che lo sposo avea la scabia all’ore otto s’intese un piccolo rumore della porta, perché entrò detto di Testasecca, suddetto Don Gaetano Crisci si trovava in vigilia [sveglio] per l’incomodo della scabia, e si scandalizzò [si insospettì], ma perché dov’era coricata sua moglie Donna Rosa, era contigua, e colla porta aperta, nella camera di detto sposo si sentiva susurrare, ed accrescendole molto lo scandalo [il sospetto], dopo qualche mezz’ora accese la candela, e portatosi dentro la camera di sua moglie la ritrovò coricata insieme col suddetto Testasecca incominciò a gridare, disparò [sparò] due volte, ed in quel tempo Testasecca si gettò da una finestra e sene andò a refugiarsi nel venerabile convento di San Francesco de’ minori osservanti, ove si trovava un suo fratello regente; fece ricorso la parte, ma dopo alquanti mesi il Testasecca fu reso in libertà ed a quelli [al marito] gli restarono la corona senza scettro, e senza regni.
Perché comincia a scrivere?
Una domanda che non possiamo fare a meno di porci è perché quest’uomo s’induce a scrivere un diario che resterà anonimo. Mettersi all’opera e proporsi di restare anonimo è un binomio tanto intrigante quanto inusuale, se si pensa che una delle ragioni più rilevanti nella pulsione letteraria è il desiderio di sopravvivere alla propria morte. “Di me non suonerà l’eterna tromba” lamentava, diciannovenne, Leopardi, angosciato dalla possibilità di non riuscire a immortalarsi in un’opera degna di sopravvivergli. Ma l’“eterna tromba”, se può essere la ragione predominante, non è il solo effetto desiderato. Altri propositi può nascondere l’impulso a scrivere, meno evidenti ma non meno reali. E tra questi ci sono la ritualizzazione del negativo nella parola, con effetto terapeutico sull’anima, come chi nel mezzo di un dolore insostenibile si scopre poeta; la volontà d’inglobare in un pensiero compiuto la sofferenza, l’ansia, la paura, nell’inconscia convinzione di poterli magicamente dominare. Quando il campo d’interesse lo scrittore lo trova in se stesso, abbiamo la confessione, la recherche, la storia di un’anima; quando lo trova in ciò che lo circonda, allora il risultato è la cronaca. Nel caso del nostro Anonimo, a giudicare da ciò che gli accade intorno quando decide di diventare il cronista della sua città, sembrerebbe proprio lo spettacolo di un dramma collettivo a far scattare la sua scelta. Sarà il trascrittore di eventi in cui agiscono da protagoniste la fame, l’epidemia e la morte. Siamo nel settembre 1792, a ridosso di un pessimo raccolto e con un inverno che si preannuncia incupito dallo spettro della carestia. Le note stilate fino a tutto il giugno 1793, tranne poche eccezioni, non fanno che raccontare gli orrori locali del flagello che quell’anno si abbatté sulla Sicilia.
Infuria la speculazione sul prezzo del frumento, si avvicendano aumenti e calmieri, censimenti e requisizioni. Nelle campagne di Naro tre individui assaltano “due redine di muli cariche di frumento”. Dopo aver legato per terra i mulattieri, s’impossessano di otto muli. Ma si tratta di ladri improvvisati, creati più dalla fame che dalla vocazione a delinquere; sono così privi di mezzi e di professionalità che dopo qualche ora sei degli otto muli rubati vengono ritrovati a Castrofilippo col carico ancora intatto.
Intanto, alla data del 31 gennaio 1793, leggiamo che: “Per essere l’anno così sterilissimo, li ministri del venerabile seminario di Girgenti furono costretti dar licenza a tutti li seminaristi, e serrare il detto seminario per motivo che gli era terminata la provigione.” Negli stessi giorni un’epidemia di vaiolo ammorba il paese “con gran mortalità di fanciulli”. Il 21 marzo esplode “una mezza ribellione”: la gente per le strade si avventa contro i panettieri che portano il pane ai pizzicagnoli. Gli fanno cadere i cofini, i pani si spandono per terra e ognuno arraffa quel che può. In aprile la fame miete vittime in quantità tra i più poveri:
In questo mese di aprile 1793 vi è stata una mortalità di poveraglia, a tal segno che allo sepelire li cadaveri raccoglievano, per così dire, la gorgata di quattro, sej, e più ancora, e poj li sepellivano, mentre che nel tempo, che ne portavano uno, venivano a chiamare il sacerdote per l’altri, e perché non davano largo, ponevano il cadavere sopra qualche banco, o scalino d’altare, ed andavano a prendere l’altri.”
Giovanni Evangelista Di Blasi, storico dell’epoca e perciò testimone diretto, nella sua Storia del Regno diSicilia, dipinge con puntuale realismo i tragici effetti della penuria, denunciando i meccanismi speculativi che ne peggiorano gli effetti sulla popolazione: “La oltremodo paurosa ricolta di grani nell’anno di avanti, e precisamente di legumi e di olio, produsse in varie parti del regno un lacrimevole inverno. La inopportuna inedia non poco numero di individui della bassa e povera gente estinse nelle campagne e nei piccoli luoghi. Gli individui proprietari a fine di avvantaggiare vieppiù il prezzo delle loro derrate osarono occultare i loro grani, ed accrebbero per ciò la carestia…”
Per contenere la calamità e porre un freno alla speculazione il Governo di Ferdinando I ricorre alla nomina di due Commissari Generali per tutta l’isola. Uno dei quali, il barone Gioachino Ferreri, giunge a Canicattì il 4 aprile 1793. I suoi uomini bussano alle case dei benestanti, ne aprono i magazzini, scoprono le derrate frumentarie occultate, le misurano e si procede a requisire:
…salme 12 frumenti allo spettabile signore Barone Don Marco La Lomia, salme 18 al signor Don Francesco Bordonaro, salme 10 al signor Don Giacinto Gangitano, salme 5 al signor Don Giuseppe Gangitano, salme 8 al reverendo sacerdote Don Francesco Cassaro, salme 80 al signor Don Luigi Bordonaro e così tutti gli altri frumenti fino alla somma di salme 800 circa sino a nuovo di lui (del Commissario Generale) ordine, come pure gli ordinava che si avessero raccolto onze 300 tassando a tutti li benestanti, e si avessero mandato a comprare salme 100 di orzo in Terranova, che lui glielo faceva dare ad onze 2.19 la salma e sene facesse tanto pane, e darlo alli poveri, distribuendosi per mano delli detti signor Vicario Don Carlo Adamo, e signor Arciprete don Gaspare Palumbo;…”
Lo stesso Commissario promulga un bando ordinando che “nessuno avesse potuto uscire più di grana dieci di pane per portarselo in campagna al lavoro”, nessuno avrebbe potuto vendere frumento senza passare la preferenza all’autorità municipale, né avrebbe potuto andare a macinare al mulino più di sette salme di frumento; un gentiluomo, un massaro e un villano vengono assegnati a ogni uscita del paese per sorvegliare l’osservanza unanime del bando.
Il primo maggio avviene la distribuzione del pane d’orzo ai poveri. Gruppi di cenciosi e macilenti, vengono radunati dentro uno spazio chiuso nei pressi della Chiesa Madre, e da lì fatti uscire uno alla volta ricevendo due pani a testa. “E ciò nonostante seguitava sempre più la penuria”. Si aspettava con impazienza che nelle campagne maturassero le fave, una risorsa che avrebbe aiutato a fronteggiare l’emergenza. Ma era il 12 maggio e ancora non s’era assaggiata “nemmeno una fava in questa terra di Canicattì, e perciò ancora prosegue la fame”. Quando l’annata è tardiva spunta la lupa, una malattia attacca i favi alle radici e li fa seccare, proprio come avvenne quell’anno, e bisognò estirpare le piante colpite dal male per prevenirne la diffusione . Quando finalmente le fave s’ingrossarono, “tutti coloro che non ne avevano seminate, di nottetempo andavano nella campagna con sacchi grandi, o pure con bisacce lunghe e li andavano a riempire di spicchia, e colà lasciavano le scorze.” E ciò fu causa di ulteriori decessi, perché
…quelli poveretti li quali in quest’inverno passato, sono stati afflitti per mancanza delli viveri, appena incominciarono a mangiare fave, subito gli gonfiavano le gambe, e molti sene morivano.
Il Di Blasi, più informato e meno provinciale del nostro Anonimo, scrive: “Un’orribile epidemia invase tutti i luoghi, e la morte passò mietendo la sua falce fatale per gli stessi. L’attacco epidemico che spesso formavasi per le visite agli ammalati palesavasi in principio con nausea che produceva il vomito di materie viscose. Questo era seguito da tale discarimento di forze che lo infermo sembrava morto. Il sopore opprimeva molti e li privava di tutti sensi. Altri venivano assaliti da violento delirio.”
Tra lo storico palermitano e il diarista canicattinese intercorre il rapporto che c’è tra la sintesi generale e la percezione del particolare. Il primo ha una visione d’insieme di “tutti i luoghi” della Sicilia, il secondo prende nota di quanto vede a Canicattì. Il violento delirioche per il Di Blasi è uno dei sintomi dell’epidemia che infesta l’isola, per l’Anonimo è singolare concentrazione di pazzia; così, tra una nota e l’altra sui prezzi del frumento, non tralascia d’informarci che il 18 maggio Don Lorenzo Pontillo, speziale, impazzì e poi “se ne venne a malattia mortale”; il 22 “impazzì Santo Bennici”, mentre il 29 toccò a Gaetano Lodico, che “comparì troppo furioso”. Sono eventi che destano il suo interesse per l’inusuale manifestarsi nel giro di poco tempo, eventi strani, esattamente come quello che avvenne nella stalla del sacerdote Don Giacomo Placenti, la cui giumenta partorì “una mulacciuna senza piedi, che pareva come un pesce, e tutti gli altri membri erano giusti come gli altri mulacciuni.” Ma dopo un giorno morì.
Anche i temporali, specialmente se degenerano in alluvioni ( cosa che accadeva spesso, data la configurazione della parte bassa di Canicattì, dove le acque provenienti dalle contrade alte formavano la piena) vengono regolarmente annotati. La loro descrizione ha uno fine pratico, se così si può chiamare quell’intento di offrire un puntuale inventario dei danni, che l’avvicina più a un rapporto di polizia che a un esercizio letterario. Ma da questa noncuranza estetica, da questo assoluto silenzio della sfera lirica dell’io, paradossalmente, scaturisce una valenza poetica forte e concreta, come in questa nota del 26 settembre 1793:
Giorno di giovedì ad ora 22 venne la prima acqua con lampi, tuoni e puochissime grandini, e l’indomane ad ora tredici vi fu un’acqua tanta copiosa con grandini, lampi e tuoni che la piena del vallone dietro il castello calava dalle chiuse come una montagna, a segno che arrivata nella fontana delli Candolicchi nominata, ove vi era un ponticello di gisso, se lo condusse, arrivata nella piazza, riempì d’acqua una buona quantità di botteghe, passava per sopra il ponte nella piazza si portò seco la fonte della fonte dell’acqua amara, che era alta sopra terra, qualche palmi cinque, entrò dentro l’abbeveratura di detta fontana, si portò tante botte nuove, che li bottari avevano davanti alle loro botteghe, si portò a mastro Eamanuele Cupani, figlio di mastro Giovanni, un uomo di qualche trent’anni circa, arrivata detta piena al ponte nominato di Buonavia se lo portò seco, si portò ancora diverse giumente con i suoi seguaci, mule, scampirri [asini], ed una fanciulla di 7 anni circa; un lampo -si sdisse- aver incenerito quasi all’intutto ad una femina ed un di lei figlio, ed allo sposo lo colpì legiermente, che dallo spavento sene morì ancora dopo mezza giornata e ciò sortì nella terra della Favara. Tutta la notte li lampi non cessarono ed erano talmente impressi che non’ostante il nuvolato vi era, si vedeva, sopra la terra inclusive la più piccolissima cosa, e le grandini fecero danno notabile alle vigne.
La meteorologia, in genere, fa evento per le connessioni utilitaristiche con la vita della comunità, la cui sopravvivenza è legata al ciclo agrario, ai raccolti e perciò alle propizie condizioni del tempo. Non si contano le processioni con la Madonna, con i santi nei periodi di prolungata siccità, e non mancano casi di quasi immediato divino riscontro. Il 19 marzo 1809, una processione dietro le bare di san Diego e san Giuseppe muove dal convento di san Francesco e si dirige alla vicina chiesa del Purgatorio, dove si dà inizio a quattro giorni di preghiera con l’esposizione del santo Sacramento. Tutto, per invocare la pioggia, dopo un inverno totalmente asciutto, “faceva serenità sin dalli 26 dicembre prossimo passato”. Dopo quattro giorni esatti, la mattina del 25 marzo, “cominciò a piovere legermente”, e, l’indomani, l’Anonimo scrive “ Domenica la notte ed il giorno alle ore 19 vi fu una continua copiosa pioggia acqua”; dopodiché, “la popolazione uscì il glorioso Patriarca san Giuseppe e san Diego dal convento suddetto di san Francesco, e li condusse per tutta la terra per ringraziamento della pioggia suddetta”. Oggi forse qualcuno griderebbe al miracolo per la pronta risposta pluviale alle suppliche, ma la naturalezza con cui la riferisce il nostro suona segno di normalità per quanto avviene.
Aldilà degli aspetti agricoli, la precarietà esistenziale, vissuta individualmente e collettivamente, trova nei fenomeni atmosferici il suo riflesso cosmico. Il popolo interpreta i segni del cielo, vi proietta le angosce, i terrori che agitano la sua anima e nell’approccio magico-religioso tenta di soddisfare il suo intimo bisogno di protezione. Lo scirocco che, nell’aprile1830, da giorni reca danni nelle campagne, che strappa i tralci ancora teneri alle vigne, d’improvviso crea insolite formazioni cromatiche nell’aria, seminando panico tra la popolazione.
Continuando detto Sirocco, sbarbicò molti alberi, ed alcuni li diramò; circa poi le ore 14 comparì l’aria dalla parte del Mezzogiorno infoscata, che sembrava pioggia; poi detta foscatura circa le ore 16, si cambiò a color d’arancio squallido, e s’inoltrò per tutta l’aria, e pioveva una certa arena gialliccia fina. Questa popolazione, presa di timore di qualche castigo d’Iddio di terramoto, o altro, la gente uscì fuori di casa, e specialmente il popolo basso, andarono dalli sacerdoti e conventi, fecero aprire le chiese, e fecero esponere il Divinissimo, chi predicava, chi piangeva, chi andava in penitenza, e poi portarono alla madre Madre Chiesa le statue di Maria Santissima Immacolata di san Francesco, il Patriarca san Giuseppe il Glorioso Protettore san Diego, San Vincenzo Ferreri, San Calogero, Santo Antonio di Padova dello Spirito Santo, e Santa Barbara, si espose il Santissimo Sacramento: ed il reverendo sacerdote Don Giuseppe Merulla predicò; alcuni di questa popolazione andarono a prendere la statua di Maria Santissima del Carmine, e la portarono al convento dello Spirito Santo, ove si espose il Santissimo Sacramento: e quei reverendi padri facevano penitenza, ed uno di essi predicò. Nessuno il mezzogiorno pranzò, tutti dediti a pregare Iddio per benignarsi del minacciato castigo. Circa le ore 19 cominciò a dileguarsi quella rossia, e restò l’aria ottenebrata come se vi fosse una nebbia: restarono dette statue per fare un ottavario.
E ancora alla penitenza si ricorre nello lotta contro un’ eccezionale invasione di cavallette nelle campagne. Il 17 aprile 1798 “ Molti religiosi, l’Arciprete Don Gaspare Palumbo, il vicario Don Carlo Adamo con molti gentiluomini, mastri e villani, andarono in penitenza” in contrada Rinazzi “per scomunicare li cavalletti, quali avevano scovato in un’ingente quantità”. Per alcuni giorni tutto il paese, sconvolto, si mobilita nella caccia alle cavallette. Giunge in paese il Commissario generale, dalla vicina Naro scendono i giurati, “pene ardue” (multe) vengono imposte per chi ha cavallette nelle proprie e terre e non provvede a raccoglierle con uomini e teli. Ma nonostante il levarsi di autorità civili e religiose, con subbuglio di multe e penitenze, le cavallette non danno segno di diminuire, continuano a infestare le contrade di Rinazzi, Gaetano e ora cominciano a lambire anche Giacchetto. A quel punto preti e gentiluomini si mettono a girare per le vie del paese invitando la gente a recarsi in massa nelle contrade invase per raccogliere cavallette. Chi non può farlo deve versare un tarì per un fondo pubblico che servirà ad assumere braccianti da impiegare nella crociata contro gli insetti. Nulla dice l’autore sulla fine di questo castigo di biblica memoria, con brusca soluzione di continuità passa a darci notizia di un “bando reale” di onze cinquanta di taglia per chi prende “vivo o morto a Don Raffaele Grillo di Racalmuto, ladro assassino celeberrimo”, senza parlare più di cavallette. Che, comunque e indipendentemente dalle sue annotazioni, doveva essere un malanno affatto raro, se nell’agosto 1796 già troviamo traccia della loro presenza:
Vi furono li grilli di una gran quantità, li quali fecero molto danno, all’Albiata morderono tutto l’orzo, come pure a Fontana Bianca ed altre parte; buon’è per che capitarono dopo fatto quasi tutto il raccolto.
Diego Guadagnino
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