È una precisazione, questa, che facilita l’approccio all’unico libro di poesie, La Sicilia, il suo cuore, che lo scrittore di Racalmuto pubblicò nel 1952, con l’editore romano Bardi. Sebbene, sia un’opera rimasta solitaria nel contesto della sua opera successiva, non è la sola testimonianza dell’interesse che Sciascia giovane ebbe per la poesia. Nello stesso anno, per i tipi dell’editore suo omonimo, pubblicò Il fiore della poesia romanesca, un’antologia di Belli, Pascarella, Trilussa e Dell’Arco, con una premessa di Pier Paolo Pasolini, e con introduzioni a ogni singolo autore, che investono le diverse modulazioni dell’uso poetico del dialetto da parte dei quattro poeti antologizzati. Oggi leggiamo questi microsaggi come documento di un’attenzione non solo per la poesia, ma soprattutto per il linguaggio della poesia.
La Sicilia, il suo cuore opera solitaria nella produzione sciasciana, ma solo per il genere, perché se ne analizziamo i contenuti ci accorgiamo che si presenta manifesto poetico, dichiarazione d’intenti, insomma come un mettere le mani avanti di quel mondo che lo scrittore negli anni a venire svelerà con i suoi libri.
“Qui la Sicilia ascolta la sua vita” è l’endecasillabo finale della lirica eponima della silloge, posto a suggello di una serie di frammenti di un paesaggio caparbiamente antiretorico, come può esserlo il voler cogliere “questa terra/ dentro l’occhio immobile del bue”, senza interferenza alcuna di miti, di folklore, di luoghi comuni edulcorati, ma con sguardo bovino, stupido, se vogliamo, ma nel senso di estraneo a ogni forma di intromessa astrazione culturale o intellettuale. Fare poesia sulla Sicilia diventa subito per il poeta un processo di desublimazione per diffidenza nei confronti del passato e della sua rappresentazione mitica, storiografica e letteraria. “Diffidenza” è una delle parole che Sciascia userà, in Sicilia e sicilitudine, per designare il carattere dei siciliani: “Si può dunque dire che l’insicurezza è la componente primaria della storia siciliana; e condiziona il comportamento, il modo di essere, la visione della vita – paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo – della collettività e dei singoli.” Ma questa “diffidenza” è storicamente determinata dal dominio violento e subdolo dei colonizzatori, che partendo dall’antichità arrivano a Patton e Montgomery. “La paura ‘storica’ è diventata dunque paura ‘esistenziale’”. Ecco allora la furia iconoclasta del poeta far dentro di sé tacita strage di una cultura che da complice serve la sovrastruttura del dominio: “Gli antichi a questa luce non risero, / strozzata dalle nuvole, che geme / sui prati stenti, sui greti aspri, / nell’occhio melmoso delle fonti; / le ninfe inseguite / qui non si nascosero agli dei; gli alberi / non nutrirono frutti agli eroi.”
Alla suggestiva retorica dei miti, il poeta contrappone e preferisce la drammatica realtà delle “grevi leggende /di terra e di zolfo, oscure storie squarciate / dalla tragica luce bianca dell’acetilene /”, leggende e storie apprese dagli zolfatari, “silenziosi uomini neri” che gremiscono la “piazza grande” del paese.
Ancora più evidente e completo si fa lo spirito motore del poetare nei versi dedicati alla memoria del fratello Giuseppe, morto suicida, quando evoca “acque gialle di fango / che i greci dissero d’oro. E noi d’oro / diciamo la tua via, la nostra / che ci rimane…”. La negazione di un’età dell’oro messa in atto per dare spazio e dignità al valore della vita, che fa da leitmotiv alla plaquette, prefigura in forma esplicita la declinazione della Sicilia nelle future opere del poeta-scrittore: partire da tòpoi della cultura siciliana stratificati in animo collettivo, passivamente accettati nella quotidiana pratica del vivere, per sfatarli e rivelarli inaccettabili alla luce di una visione del mondo ricalcata sui fondamentali dell’illuminismo. Un’esperienza, questa, che lo fa e lo farà sentire vivo in mezzo ai morti, come in forma di metafora si esprime visitando le tombe ove ripossano i suoi cari: “…mi ritrovo / vivo gremito di parole / come l’istrione sulla fossa di Ofelia / vivo come non mai presso i miei morti.”
La morte viene costantemente evocata nei simboli visibili del carro funebre, del cimitero, della similitudine, nel “cupo passo degli zolfatari, come se le strade / coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte”, perfino nel pensiero che affligge l’anima nell’esistere “Come chiusi in un’arca di noia”, nella tentazione di acconsentire alla sua fascinazione e “dimenticare ogni parola, / lasciare che il silenzio ci salvi / e si dissangui la memoria / fino a quando ci accolga un fuoco certo.” Ma è sempre un’evocazione sorvegliata dal valore umano, è sempre un punto dialettico a cui contrapporre la volontà di vita, una contemplazione segreta per meglio ritrovarsi “negli occhi degli altri (…) / esule pena / che scioglie il tempo umano in acri sillabe.” E il poeta dipinge il proprio autoritratto in un’immagine statuaria di raggiunto equilibrio, sintesi cosciente di contrastanti vocazioni: “Sono una statua mutila / in fondo ad un’acqua chiara”, da questa condizione di muto distacco, da questa immobilità minerale che lascia intuire la prevalenza della ragione sul sentimento, si avvede che “Soltanto un tremore di cose / specchiate (…) /…può darmi/delirio di tempo, / mutare il nulla in parola.”
La breve stagione poetica di Leonardo Sciascia si realizza in questa esile raccolta di poesie, ma nello stesso tempo coagula in uno stile e in un linguaggio che saranno i tratti distintivi della sua scrittura. Le parrocchie di Regalpetra, opera che in ordine cronologico verrà immediatamente dopo, ne porterà l’impronta nella prosa sapientemente cesellata, che da cronaca o denuncia sociale la solleva al rango letterario con diffuse venature di vera poesia.
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