Diego Guadagnino
I filosofi della Quarta Sezione
Edizioni Clandestine
Marina di Massa, 2013
Se, prima di conoscere questo suo nuovo romanzo, mi fosse
stato chiesto un parere sull’attività
letteraria di Diego Guadagnino, avrei a un di presso risposto così:
pregevole quanto persuasiva non solo per
la vastità della gamma tematica e delle sottese implicazioni esistenziali, ma
anche per il raffinato recupero di classicheggianti modalità stilistico-metriche. Un discorso
autonomo e specifico richiedono le opere in versi che a me paiono avere
raggiunto un proprio culmine col recente Apocrifi
(2011). Per ciò che è del saggista e del narratore, premetterei invece che (Guadagnino
essendo un avvocato penalista) determinanti sembrano essere, già in prima
istanza, prerogative che si direbbero legate ad abitudini professionali:
all’esigenza cioè di muovere da un
quadro organico e puntuale dei fatti sulla cui base porsi poi alla caparbia
ricerca delle non solo esplicite ma anche tortuosamente sottese motivazioni.
Palesemente, è
stata una insopprimibile ragione etica a
spingere Guadagnino a impegnarsi nello
scandagliare e ricostruire punto per punto l’ormai obliata parabola umana e
politica di quel Domenico Cigna che (cfr. Il
fabbro e le formiche, 2011) fu, in Sicilia, uno dei padri fondatori del
socialismo. Ma anche nelle creazioni di
pura fantasia, a sostanziare i suoi
personaggi è non tanto il lascito del loro personale vissuto quanto la loro ideologia, coagulata sempre entro una
partecipe militanza nell’ambito della sinistra. Ciò valeva già nell’arcaico e chiuso mondo antico della
comunità che, in La via breve,
convive tutta ai lati di una stessa, corta strada; e vale a maggior ragione per
questo nuovo romanzo il cui titolo (pertinente sì, ma forse non dei più
accattivanti) dev’essere così spiegato:
la “Quarta Sezione” è tale perché costituita da militanti espulsi dalle
altre (ortodosse) tre sezioni che del
Partito comunista esistono nella medesima città; e sono “filosofi” in quanto,
senza aver rinnegato la dottrina marxista (di un Marx peraltro che tendono a leggere secondo prospettive
gramsciane) hanno individuato il proprio nume tutelare nel filosofo Baruch
Spinoza, venerandolo al punto che uno dei protagonisti, il geometra Calogero
Vinci, affronta lo studio del latino al solo scopo di poter leggere nel testo
originale l’Ethica more geometrico demonstrata.
Per chi
avvertisse una qualche esigenza di
classificazione tipologica, suggerirei
il recupero di un’etichetta a suo tempo,
e per altre ragioni, suggerita da Gianfranco Contini: quella cioè del
“verismo regionalistico”. Ciò tuttavia senza trascurare il fatto che, su altro
piano, novità saliente di quest’ultima opera è che in essa il nostro scrittore
dà prova d’essere in possesso anche di
spiccate capacità inventive.
Inventata è, per
cominciare, la fantomatica Cabiria che è la città sicula in cui, nell’anno
1985, si svolgono i fatti e non più
proletari ne sono gli attori, bensì tipici esponenti di una piccola e media
borghesia di provincia.
Situazioni di
apertura sono le seguenti: 1) il diffondersi di maldicenze secondo le quali
molte signore-bene del luogo avrebbero avuto l’abitudine di esibirsi entro una
casa di tolleranza scoperta e chiusa in una città vicina: trattandosi del
vecchio problema-corna, gli adepti della Quarta Sezione restano incerti
sull’idea di un loro intervento, ma poi, verificato che di vero non c’è
assolutamente nulla, se ne escono con un pubblico manifesto che ottiene il plauso financo dei Lions e
della Fidapa; 2) un correttissimo progetto edilizio presentato dal geometra
Vinci subisce una inopinata, immotivata bocciatura, e si scopre che a
determinarla è stata una cosca mafiosa la quale, sicura di poterli rendere edificabili,
ha puntato su quei terreni; 3) il solitario, già citato geometra riceve da
Renata una missiva che (“Una lettera che cambia la vita” avverte il titolo del
cap.X) conferma il consolidarsi di un rapporto che si rivelerà non solo amoroso
ma anche intellettuale: donna sensibile, intelligente e colta, Renata diverrà
infatti, in più occasioni, partner ideale anche per le spesso acute riflessioni
sulla vita, sull’ambiente, sulla storia alle quali non di rado indulge il suo filosofeggiante
compagno; 4) sempre il protagonista, apprende di essere imputato di falsa
testimonianza per una deposizione in un
procedimento civile del quale a stento serba memoria e che tuttavia, con Renata
al fianco, lo obbligherà a recarsi a Palermo e a ridiscendere in campo, essendo
subito chiaro che non certo lievi saranno i conseguenti danni. E’ ancora
l’amica a individuare, esposta in Municipio, una foto che basterebbe da sola a
scagionare l’accusato; non solo quella foto però, ma anche il negativo sono
fatti sparire dagli interessati. Tra le conseguenze è da rilevare il fatto che,
nelle elezioni comunali, la lista della Quarta Sezione capeggiata dal Vinci
subisce, anche ma non solo per le rivalità interne alla sinistra, una bruciante
sconfitta e a trionfare sono di nuovo i democristiani capeggiati dal sindaco
uscente Nunzio Pedano…
Naturalmente, su
codesti preliminari mi arresto in quanto non devo certo compromettere le non
poche altre sorprese che attendono il lettore e al quale solo indico che per
scoprire se le tortuose quanto verosimili vicende di questo romanzo politico
avranno o meno un lieto fine dovrà attendere la succisa e documentata Parte seconda. Qualche parola dedico invece al
linguaggio di cui il romanzo si avvale.
Anche qui,
quella di Guadagnino non è mai una lingua che indulga alla ricerca di
particolari espressività: rarissimi, per es., e sempre motivati, sono i
prelievi dialettali. Il dato saliente sembra invece ravvisabile nella costante
di una sobria, unitonale e cristallinamente geometrica sintassi. Cerco di
spiegarmi ricorrendo a un (teorico) dettaglio: capita spesso a molti di noi di avvertire una qualche
difficoltà nel passaggio da un periodo all’altro, e può succedere allora che si
ricorra a precari e pleonastici raccordi del tipo “tuttavia”, “comunque”, “in
altri termini” eccetera. Nella prosa dello scrittore di Canicattì ciò non si
verifica mai: ogni periodo segue all’altro con una consecutività che è logica
quanto necessitata.
Ciò assodato,
volendo non sottrarmi a una prassi che da tempo sembra divenuta inusuale
(quella, voglio dire, del “giudizio di valore”), lo faccio con una premessa: essendo un italianista che per quasi quarant’anni ha occupato, in
quel di Padova, una cattedra universitaria di Letteratura italiana, non ho
ancora perduto l’abitudine di tenermi
aggiornato sui più recenti sviluppi della nostra narrativa: evito di precisare
quella mezza dozzina di nomi che salverei, ma sono del parere che, con libri
quasi mai destinati a vivere al di là di
una stagione, il livello generale tenda a una poco consolante mediocrità. In un simile panorama non esito però a
ravvisare nei Filosofi della Quarta Sezione
una felice eccezione.
Auguro dunque a
questo solido, compatto, originale romanzo il successo di critica e di pubblico
che sicuramente merita; e per ciò stesso spero anzitutto che possa giovarsi, anche a livello nazionale, di
quella vasta e capillare rete di distribuzione che altri libri di Guadagnino
non sembrano avere avuto.
Dalla prefazione (non l'ho letto, ma so che uscirà a breve), il romanzo di Guadagnino sembra contenere le nebbiose atmosfere politico-sociali-mafiose descritte in romanzi come "Il giorno della civetta" o "A ciascuno il suo". Se dopo più di 40 anni un autore nel descrivere una cittadina siciliana deve ricreare talune atmosfere del passato, forse significa che è cambiato davvero poco! O meglio, è cambiato tutto ciò che serviva, per non cambiare niente di ciò che serve a certo potere. Sono curioso di leggerlo.
RispondiEliminaAngelo Lo Verme