Con la raccolta Apocrifi
(Utopia, Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 2011), l’avvocato-poeta Diego
Guadagnino conferma tutto il suo straordinario talento di autore
sensibile, profondo, e originale. Pensatore-poeta e in quanto tale
estremamente complesso, il Nostro tuttavia rifugge da qualsiasi
ermetismo, puntando alla chiarezza espositiva in obbedienza alla volontà
di un dialogo autentico tra poeta e lettore.
Altri caratteri distintivi e significativi sono l’innegabile atipicità dello stile e della metrica, atipicità sottolineata dall’uso della rima, che non si associa ad una poesia facile e leggera, ma è funzionale alla musicalità del dettato, senza inficiare l’impegno. L’unico elemento di disturbo può essere l'impressione di una ricercata letterarietà, addebitabile all’influsso dei poeti che Diego Guadagnino considera dei punti di riferimento imprescindibili, come il
citato Leopardi, Cardarelli, i Simbolisti francesi, Quasimodo, tutti
autori noti per la loro sorvegliatissima disciplina formale.
Entrando
nel merito dei contenuti proposti, il titolo stesso, Apocrifi, sembra
alludere ad una scrittura alternativa, eretica e misticamente selvaggia.
Pur “schivando” ogni sperimentalismo in Apocrifi Guadagnino
trasgredisce le regole del Dire poetico, nel senso di una straordinaria
apertura al pensiero, un pensiero concepito secondo la chiave
interpretativa di tutt’altra rivelazione rispetto a quella sacra. Come i
Vangeli apocrifi, anche le poesie di Guadagnino presentano altre verità
rispetto a quelle ufficiali, espressione di un’ortodossia.
Se nell’opera prima, Trasmutazione, il filo conduttore era rappresentato dalla spiritualità nelle sue forme più varie ed inconsuete, Apocrifi
sorprende il lettore riaffermando le ragioni dell’esserci e
ridimensionando l’attenzione all’essere, in senso metafisico e mistico.
Come
rileva acutamente in prefazione lo scrittore spagnolo Gonzalo Alvares
Garcìa, in questa silloge Guadagnino eleva a suo personale spirito-guida
“laico” o maestro di pensiero Baruch Spinoza, il filosofo panteista che
identificando Dio con la Natura mise in discussione i postulati
teologici e dottrinali venuti a dominare in Occidente, riferibili alla tradizione ebraico-cristiana.
L’ispirazione
spinoziana determina una prospettiva di pensiero, caratterizzata da una
maggiore concretezza e vicinanza alla realtà del reale, con luci ed
ombre, momenti di esaltazione o di sconforto, puntualmente registrati
sulla pagina scritta, in testi di grande suggestione. Spinoziana è anche
l’etica di Apocrifi, e in particolare quella parte dell’etica relativa alla comprensione del male, considerata “una conoscenza inadeguata, errore di prospettiva”.
Rispetto a Trasmutazione viene meno la nostalgia dell’Infinito, quell’anelito alle
ultime verità della Metafisica, il poeta siciliano sembra anzi far
propria la dichiarazione di scettica umiltà di Ludwig Wittgenstein nel Tractatus: “Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.”
Il poeta riconosce quale vivente incarnazione dell’illusione
metafisica il musicista non-vedente, che, immaginando la piazza gremita
di gente, si mette a suonare, attendendo di riscuotere un obolo che non
riceverà mai:
Nei giorni che il destino ti riserva,
anima dolente, non mimare
il cieco che una sera di febbraio
suonava, a Pesaro, e cantava
per intenerire alla moneta
la piazza attorno vuota di passanti.
Il cieco di Pesaro è
la figura-simbolo di chi si aggrappa agli infidi scogli di una
dimensione metafisica, o altro sistema di credenze, trattando
dantescamente le ombre come cosa salda.
Il
poeta ci invita al superamento di facili certezze, che fanno erigere
all’uomo dogmatico imponenti cattedrali di sabbia compressa, destinate
ad essere inghiottite dalla furia delle onde. Questa atmosfera
illuministica di incredulità
foucaultiana verso le metanarrazioni onto-teologiche si riscontra nelle
differenti poesie della silloge, che presuppongono un atteggiamento di adesione al mondo, più che di fuga o di alienazione da esso. Si tratta in ogni caso di
un’adesione tutt’altro che ottimistica, indolore o incondizionata, se è
vero che non mancano momenti di disincantata meditazione sul negativo
delll’esistenza, il destino e la morte, che fanno pensare ai tragici
greci (Eschilo, Sofocle, Euripide), a Leopardi, e ad autori
contemporanei molto vicini a Guadagnino per temperamento
riflessivo-contemplativo, come Eliot, Montale o Pessoa.
Dal
suo Spinoza Diego Guadagnino ha ereditato anche lo sguardo geometrico,
che decanta le costruzioni artificiali del “pensiero pensato” per
concentrarsi sulle cose utilizzando le risorse euristiche della ragione.
In Apocrifi, però, la vera
protagonista è la Poesia, presenza misteriosa e seducente, alla quale
sono dedicati versi profondi e suggestivi, non a caso posti all’inizio
della silloge come irrituale invocazione omerica alla Musa:
E’ lo stupore della coscienza
quando coincide col presente.
Nel tempo assume la forma
del giornale di bordo nel viaggio
verso la semplicità del reale.
L’esperienza
fondamentale del vero viene declinata nelle varie liriche in una chiave
dolorosa, amara, che non accorda la fragile carezza di una speranza di
fede o di stoica ragione. Come il Verga dei Malavoglia, tragedia greca trasportata nell’Ottocento dei Vinti, Diego Guadagnino rifiuta la tazza del consòlo, accettando tutto il fardello della sofferenza, senza esorcismi.
L’esistenza individuale e collettiva s’identifica nella serie ininterrotta delle attese, che danno il senso al tempo, determinandone i fini e le ragioni:
Tutto avevamo investito nelle attese,
i nostri limiti e la nostra debolezza,
tutto come legna al fuoco
per scaldare i nostri cuori
e difenderli da un occhio di Medusa.
Le stagioni della vita segnate dal nostro continuo oscillare “tra perdita e profitto”, per citare T. S. Eliot, sono trascorse “[…]senza
più ridarci/la sorte che fu seme alla speranza[…]”, e il poeta ne
sottolinea il valore di verità: “nel vuoto senza pianto” di una
rassegnata accettazione dell’esser-ci con il suo fardello di gioie e di
dolori “riposa la certezza” che le attese esperite nel tempo “servirono a
snidare/la menzogna dalla vita” (Le Attese).
Il
poeta contempla le “piccole cose” di pascoliana memoria, si muove tra
fiori, odori, sensazioni ed umori di un’anima tormentata, che riflette
sulla grigia monotonia dei giorni e le contraddizioni del mondo che ci
circonda, che vanno “tolte” dialetticamente e trascese su un diverso
piano dell’essere. Consapevole dei suoi limiti terreni, l’autore di Apocrifi rivela tutta la fragilità del suo status di
uomo, di testimone del tempo e di poeta, ruolo, quest’ultimo, che crede
(a parere di chi scrive a torto) di non aver assolto come avrebbe
voluto. Il rimpianto di non aver scritto versi differenti diviene a sua
volta metafora di un’altra vita e di un altro destino, dal momento che
per Diego Guadagnino vivere è scrivere, così come vale l’inverso:
Di certo avrei voluto che i miei versi
avessero le ali dei gabbiani
che solcano l’azzurro nella calma
luminosa dei mattini.
Mi trovo parole come pietre
sottratte a questo muro che raccoglie
il mio sguardo ferito dalla notte,
a questo muro che consuma
la mia fatica d’uomo
votato ad invisibili orizzonti.
(Il Muro)
Scorrendo le belle pagine della raccolta si sente come un’eco smorzata il clamore della grande jihad interiore, l’unica guerra considerata come veramente santa
dal profeta Maometto, quell’agonia intima, esistenziale, vissuta sia
dall’uomo che dal poeta, che in una delle elegie più riuscite del libro
si autodefinisce Guardiano del dolore:
Per te sulla pianura sterminata
le stelle come gocce raggelate
non stillano più linfa d’infinito,
guardiano del dolore, così nuda
ormai è la tua mente che non cerchi
la cera dei compagni di Odisseo.
Ti nutre l’ineffabile salario
di sapere che basta solo l’alba
sepolta nel tuo abisso come brace.
(Guardiano del dolore).
Il
poeta è mosso da uno spirito inquieto, mai pago di esplorare le
frontiere della vita fino a trascenderne la caducità e soffermandosi
sull’ineffabile alone di mistero che aleggia su di essa e sulle sue
parvenze di verità, “il finto vero” tragicamente cantato in versi di
straordinaria potenza espressiva:
Lasciami andare dove tutto è nero
in ubbidienza a brama di caduta,
ché là, solo, consumi il finto vero
che partorì la vita non vissuta.
(Da “Il finto vero”).
Apocrifi riunisce
percorsi lirici diversi e persino divergenti, che sono però
concomitanti nel promuovere l’evoluzione concreta e globale dell’Io,
avvalendosi di spunti provenienti dai mondi più diversi: psicanalisi,
Esistenzialismo, dottrine orientali come Buddhismo Zen e Taoismo, e
quant’altro. Apocrifi è letteratura, ma soprattutto Erlebnis,
“esperienza vissuta”, trasfigurata nel nome e nel segno di una
scrittura affascinante, che lascia ampio margine di manovra
all’immaginazione poetica senza tradire le ragioni della riflessione
filosofica.
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