sabato 23 marzo 2013

DOMENICO TURCO, "Apocrifi" di Diego Guadagnino

Con la raccolta Apocrifi (Utopia, Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 2011), l’avvocato-poeta Diego Guadagnino conferma tutto il suo straordinario talento di autore sensibile, profondo, e originale. Pensatore-poeta e in quanto tale estremamente complesso, il Nostro tuttavia rifugge da qualsiasi ermetismo, puntando alla chiarezza espositiva in obbedienza alla volontà di un dialogo autentico tra poeta e lettore.

Altri  caratteri distintivi e  significativi sono l’innegabile atipicità dello stile e della metrica, atipicità sottolineata dall’uso della rima, che non si  associa ad una poesia facile e leggera, ma è funzionale alla musicalità del dettato, senza inficiare l’impegno. L’unico elemento  di disturbo può essere l'impressione di una ricercata letterarietà, addebitabile all’influsso dei poeti che Diego Guadagnino  considera dei punti di riferimento imprescindibili, come  il citato Leopardi, Cardarelli, i Simbolisti francesi, Quasimodo, tutti autori noti per la loro sorvegliatissima disciplina formale.
Entrando nel merito dei contenuti proposti, il titolo stesso, Apocrifi, sembra alludere ad una scrittura alternativa, eretica e misticamente selvaggia. Pur “schivando” ogni sperimentalismo in Apocrifi Guadagnino trasgredisce le regole del Dire poetico, nel senso di una straordinaria apertura al pensiero, un pensiero concepito secondo la  chiave interpretativa di tutt’altra rivelazione rispetto a quella sacra. Come i Vangeli apocrifi, anche le poesie di Guadagnino presentano altre verità rispetto a quelle ufficiali, espressione di un’ortodossia.
Se nell’opera prima,  Trasmutazione,  il filo conduttore era rappresentato dalla spiritualità nelle sue forme più varie ed inconsuete, Apocrifi sorprende il lettore riaffermando le ragioni dell’esserci e ridimensionando l’attenzione all’essere, in senso metafisico e mistico.
Come rileva acutamente in prefazione lo scrittore spagnolo Gonzalo Alvares Garcìa, in questa silloge Guadagnino eleva a suo personale spirito-guida “laico” o maestro di pensiero Baruch Spinoza, il filosofo panteista che identificando Dio con la Natura mise in discussione i postulati teologici e dottrinali venuti a dominare in  Occidente, riferibili alla tradizione ebraico-cristiana.
L’ispirazione spinoziana determina una prospettiva di pensiero, caratterizzata da una maggiore concretezza e vicinanza alla realtà del reale, con luci ed ombre, momenti di esaltazione o di sconforto, puntualmente registrati sulla pagina scritta, in testi di grande suggestione. Spinoziana è anche l’etica di Apocrifi, e in particolare quella parte dell’etica relativa alla comprensione del male, considerata “una conoscenza inadeguata, errore di prospettiva”.
Rispetto a Trasmutazione viene meno la nostalgia dell’Infinito, quell’anelito  alle ultime verità della Metafisica, il poeta siciliano sembra anzi far propria la dichiarazione di scettica umiltà di Ludwig Wittgenstein nel Tractatus: “Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.”
Il poeta riconosce quale vivente incarnazione  dell’illusione metafisica il musicista non-vedente, che, immaginando la piazza gremita di gente, si mette a suonare, attendendo di riscuotere un obolo che non riceverà mai:
Nei giorni che il destino ti riserva,
anima dolente, non mimare
il cieco che una sera di febbraio
suonava, a Pesaro, e cantava
per intenerire alla moneta
la piazza attorno vuota di passanti.
Il cieco di Pesaro è la figura-simbolo di chi si aggrappa agli infidi scogli di una dimensione metafisica, o altro sistema di credenze, trattando dantescamente le ombre come cosa salda.
Il poeta ci invita al superamento di facili certezze, che fanno erigere all’uomo dogmatico imponenti cattedrali di sabbia compressa, destinate ad essere inghiottite dalla furia delle onde. Questa atmosfera illuministica di  incredulità foucaultiana verso le metanarrazioni onto-teologiche si riscontra nelle differenti poesie della silloge, che presuppongono un atteggiamento  di  adesione al mondo, più che di fuga o di alienazione da esso. Si tratta in ogni caso  di un’adesione tutt’altro che ottimistica, indolore o incondizionata, se è vero che non mancano momenti di disincantata meditazione sul negativo delll’esistenza, il destino e la morte, che fanno pensare ai tragici greci (Eschilo, Sofocle, Euripide), a Leopardi, e ad autori contemporanei molto vicini a Guadagnino per temperamento riflessivo-contemplativo, come Eliot, Montale o Pessoa.
Dal suo Spinoza Diego Guadagnino ha ereditato anche lo sguardo geometrico, che decanta le costruzioni artificiali del “pensiero pensato” per concentrarsi sulle cose utilizzando le risorse euristiche della ragione. In Apocrifi, però, la vera protagonista è la Poesia, presenza misteriosa e seducente, alla quale sono dedicati versi profondi e suggestivi, non a caso posti all’inizio della silloge come irrituale invocazione omerica alla Musa:
E’ lo stupore della coscienza
quando coincide col presente.
Nel tempo assume la forma
del giornale di bordo nel viaggio
verso la semplicità del reale.
L’esperienza fondamentale del vero viene declinata nelle varie liriche in una chiave dolorosa, amara, che non accorda la fragile carezza di una speranza di fede o di stoica ragione. Come il Verga dei Malavoglia, tragedia greca trasportata nell’Ottocento dei Vinti, Diego Guadagnino rifiuta la tazza del consòlo, accettando tutto il fardello della sofferenza, senza esorcismi.
L’esistenza individuale e collettiva s’identifica nella serie ininterrotta delle attese, che danno il senso al tempo, determinandone i fini e le ragioni:
Tutto avevamo investito nelle attese,
i nostri limiti e la nostra debolezza,
tutto come legna al fuoco
per scaldare i nostri cuori
e difenderli da un occhio di Medusa.
Le stagioni della vita segnate dal nostro continuo oscillare “tra perdita e profitto”, per citare T. S. Eliot, sono trascorse “[…]senza più ridarci/la sorte che fu seme alla speranza[…]”, e il poeta ne sottolinea il valore di verità: “nel vuoto senza pianto” di una rassegnata accettazione dell’esser-ci con il suo fardello di gioie e di dolori “riposa la certezza” che le attese esperite nel tempo “servirono a snidare/la menzogna dalla vita” (Le Attese).
Il poeta contempla le “piccole cose” di pascoliana memoria, si muove tra fiori, odori, sensazioni ed umori di un’anima tormentata, che riflette sulla grigia monotonia dei giorni e le contraddizioni del mondo che ci circonda, che vanno “tolte” dialetticamente e trascese su un diverso piano dell’essere. Consapevole dei suoi limiti terreni, l’autore di Apocrifi rivela tutta la fragilità del suo status di uomo, di testimone del tempo e di poeta, ruolo, quest’ultimo, che crede (a parere di chi scrive a torto) di non aver assolto come avrebbe voluto. Il rimpianto di non aver scritto versi differenti diviene a sua volta metafora di un’altra vita e di un altro destino, dal momento che per Diego Guadagnino vivere è scrivere, così come vale l’inverso:
Di certo avrei voluto che i miei versi
avessero le ali dei gabbiani
che solcano l’azzurro nella calma
luminosa dei mattini.
Mi trovo parole come pietre
sottratte a questo muro che raccoglie
il mio sguardo ferito dalla notte,
a questo muro che consuma
la mia fatica d’uomo
votato ad invisibili orizzonti.
(Il Muro)
Scorrendo le belle pagine della raccolta si sente come un’eco smorzata il clamore della grande jihad interiore, l’unica guerra considerata come veramente santa dal profeta Maometto, quell’agonia intima, esistenziale, vissuta sia dall’uomo che dal poeta, che in una delle elegie più riuscite del libro si autodefinisce Guardiano del dolore:
Per te sulla pianura sterminata
le stelle come gocce raggelate
non stillano più linfa d’infinito,
guardiano del dolore, così nuda
ormai è la tua mente che non cerchi
la cera dei compagni di Odisseo.
Ti nutre l’ineffabile salario
di sapere che basta solo l’alba
sepolta nel tuo abisso come brace.
(Guardiano del dolore).
Il poeta è mosso da uno spirito inquieto, mai pago di esplorare le frontiere della vita fino a trascenderne la caducità e soffermandosi sull’ineffabile alone di mistero che aleggia su di essa e sulle sue parvenze di verità, “il finto vero” tragicamente cantato in versi di straordinaria potenza espressiva:
Lasciami andare dove tutto è nero
in ubbidienza a brama di caduta,
ché là, solo, consumi il finto vero
che partorì la vita non vissuta.
(Da “Il finto vero”).
Apocrifi riunisce percorsi lirici diversi e persino divergenti, che sono però concomitanti nel promuovere l’evoluzione concreta e globale dell’Io, avvalendosi di spunti provenienti dai mondi più diversi: psicanalisi, Esistenzialismo, dottrine orientali come Buddhismo Zen e Taoismo, e quant’altro. Apocrifi è letteratura, ma soprattutto Erlebnis, “esperienza vissuta”, trasfigurata nel nome e nel segno di una scrittura affascinante, che lascia ampio margine di manovra all’immaginazione poetica senza tradire le ragioni della riflessione filosofica.

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