Pubblicata su
“ARCHIVIO“
n. 9, Padova, 2006
mensile di arte, cultura, antiquariato, collezionismo e informazione di Mantova.
“La convenzionale semplificazione delle biografie, limitata in genere
agli eventi esteriori, ben poco sa dirci delle esperienze che concorrono
a formare la memoria di un uomo, a forgiarne l’identità. Solo l’arte e
la poesia riescono a riscattare alla chiarezza la sostanza dei giorni,
dei momenti più significativi di una vita, e quella che siamo soliti
chiamare ispirazione non è che la grazia dell’accesso a una dimensione
visiva e percettiva da cui ci distoglie il fuggire quotidiano da noi
stessi.
Un aneddoto che l’Artista mi racconta della sua infanzia modicana
sintetizza come in un emblema la sua storia di uomo e di pittore.
Amando appartarsi, per nutrire ed essere nutrito dai suoi sogni di bambino, andava a sedersi sui gradini esterni di un antico palazzo nobiliare, la cui padrona ( o almeno vissuta come tale ), appena lo scorgeva, s’affacciava dal balcone e infastidita gli intimava lo sfratto da quel posto tanto amato. Ma il bambino, ripetutamente scacciato, divenuto l’artista Salvatore Fratantonio, ritorna e mette piede nei saloni affrescati di quello stesso palazzo che si apre ad accogliere una sua mostra nella città natale. Un aneddoto che ha tutti i requisiti per elevarsi a metafora di quanto sia capace la forza magica dell’arte nell’evocare all’autenticità un’esistenza o a dischiudere le porte invisibili di un sogno.
Alberto Savinio, scrittore al nostro tanto caro, scrive, parlando di un se stesso anagrammato: “ Nivasio per sua natura dovrebbe sedere sulla vetta, respirare la solitudine suprema, contemplare l’ultimo silenzio “. “ Ma chi riconosce a Nivasio Dolcemare questi diritti ottici, questi privilegi di respirazione ? “.
Ebbene, se guardiamo al nascere e all’evolversi dell’opera di Fratantonio, non possiamo fare a ameno di scoprire come quest’uomo, che sotto il volto barbuto di un dio greco nasconde la saggezza di un vecchio contadino siciliano, abbia costantemente seguito il richiamo verso la “solitudine suprema “, soggiogato dal fascino dell’ “ultimo silenzio “.
Solitudine e Silenzio sono le drammatis personae della sua pittura, le paniche deità diffuse nelle forme e nei colori di paesaggi che fanno balenare ai nostri occhi rupestri o marine felicità di cui l’Artista conosca ubicazione e consistenza
Se si escludono le kafkiane atmosfere stagnanti dentro solchi vuoti di casermoni e grattacieli ( espressioni di un rapporto con la metropoli intimamente non risolto ), l’opera di Fratantonio non presenta mai le impronte della disperazione o della angoscia. Neanche quando ritrae rose e fiori nel momento del declino, ai margini di una penombra seicentesca eletta a simbolo di un nulla che presto calerà come sipario sulla scena. Ciò che esala da quei petali cadenti non è la sterile protesta pessimista, ma il malinconico sapere che la vita si fa amare appunto perché fragile e fugace.
Questo vedere positivo, eredità preziosa di un’infanzia povera che gli ha insegnato a pensare il mondo come il contadino la sua terra, lo spinge a scegliere il carrubo, a rappresentarlo sulla tela. “ Perché “ mi spiega “ con il suo paziente insinuarsi nei recessi di un terreno povero e pietroso esprime le avversità che ho dovuto affrontare nella vita “. E sia. Ma non è soltanto questo. Fratantonio non ha mai assunto o assecondato pose decadenti, non ha ombre vane da esorcizzare attraverso le immagini che crea, è un uomo pagamente radicato nella realtà di questo mondo, o meglio nella realtà della sua terra e in particolare della sua campagna modicana, da cui si è allontanato nello spazio senza mai abbandonarla nello spirito.
E quest’albero, che la caratterizza nella sua irripetibile bellezza, ha tutta la pensosa malinconia del Nostro che, per dirla col suo amato Cardarelli, “ non è che un fanciullo che si duole di essere cresciuto “.
Amando appartarsi, per nutrire ed essere nutrito dai suoi sogni di bambino, andava a sedersi sui gradini esterni di un antico palazzo nobiliare, la cui padrona ( o almeno vissuta come tale ), appena lo scorgeva, s’affacciava dal balcone e infastidita gli intimava lo sfratto da quel posto tanto amato. Ma il bambino, ripetutamente scacciato, divenuto l’artista Salvatore Fratantonio, ritorna e mette piede nei saloni affrescati di quello stesso palazzo che si apre ad accogliere una sua mostra nella città natale. Un aneddoto che ha tutti i requisiti per elevarsi a metafora di quanto sia capace la forza magica dell’arte nell’evocare all’autenticità un’esistenza o a dischiudere le porte invisibili di un sogno.
Alberto Savinio, scrittore al nostro tanto caro, scrive, parlando di un se stesso anagrammato: “ Nivasio per sua natura dovrebbe sedere sulla vetta, respirare la solitudine suprema, contemplare l’ultimo silenzio “. “ Ma chi riconosce a Nivasio Dolcemare questi diritti ottici, questi privilegi di respirazione ? “.
Ebbene, se guardiamo al nascere e all’evolversi dell’opera di Fratantonio, non possiamo fare a ameno di scoprire come quest’uomo, che sotto il volto barbuto di un dio greco nasconde la saggezza di un vecchio contadino siciliano, abbia costantemente seguito il richiamo verso la “solitudine suprema “, soggiogato dal fascino dell’ “ultimo silenzio “.
Solitudine e Silenzio sono le drammatis personae della sua pittura, le paniche deità diffuse nelle forme e nei colori di paesaggi che fanno balenare ai nostri occhi rupestri o marine felicità di cui l’Artista conosca ubicazione e consistenza
Se si escludono le kafkiane atmosfere stagnanti dentro solchi vuoti di casermoni e grattacieli ( espressioni di un rapporto con la metropoli intimamente non risolto ), l’opera di Fratantonio non presenta mai le impronte della disperazione o della angoscia. Neanche quando ritrae rose e fiori nel momento del declino, ai margini di una penombra seicentesca eletta a simbolo di un nulla che presto calerà come sipario sulla scena. Ciò che esala da quei petali cadenti non è la sterile protesta pessimista, ma il malinconico sapere che la vita si fa amare appunto perché fragile e fugace.
Questo vedere positivo, eredità preziosa di un’infanzia povera che gli ha insegnato a pensare il mondo come il contadino la sua terra, lo spinge a scegliere il carrubo, a rappresentarlo sulla tela. “ Perché “ mi spiega “ con il suo paziente insinuarsi nei recessi di un terreno povero e pietroso esprime le avversità che ho dovuto affrontare nella vita “. E sia. Ma non è soltanto questo. Fratantonio non ha mai assunto o assecondato pose decadenti, non ha ombre vane da esorcizzare attraverso le immagini che crea, è un uomo pagamente radicato nella realtà di questo mondo, o meglio nella realtà della sua terra e in particolare della sua campagna modicana, da cui si è allontanato nello spazio senza mai abbandonarla nello spirito.
E quest’albero, che la caratterizza nella sua irripetibile bellezza, ha tutta la pensosa malinconia del Nostro che, per dirla col suo amato Cardarelli, “ non è che un fanciullo che si duole di essere cresciuto “.
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