mercoledì 10 agosto 2022

DIEGO GUADAGNINO, "I sepolti vivi" un atto di resistenza che ci riguarda

                                        Noi picconieri di monti e di abissi
                                        sepolti vivi scaviamo tesori.
                                        M. RapisardiIl canto dei minatori




Nel processo a Danilo Dolci davanti al tribunale di Palermo, nel 1956, al pubblico ministero, che nella requisitoria aveva esortato i giudici a tener conto del dettato della legge e non delle “correnti di pensiero” portate dai testimoni “accorsi da tutta Italia”, Piero Calamandrei rispondeva nella su arringa: “Ma cosa sono le leggi, illustre rappresentante del P.M., se non esse stesse ‘correnti di pensiero’? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta; se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come peso inerte. E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.”

A oltre mezzo secolo di distanza, Giacomo La Russa, scrittore, avvocato del foro agrigentino, in linea con l’approccio ermeneutico dell’illustre giurista fiorentino, ha voluto far “circolare il pensiero” e i valori del nostro sentire in una sentenza di condanna che li ha tenuti fuori, quei valori, attenendosi alla pedissequa applicazione del codice penale.

La sentenza è quella emessa dal tribunale di Agrigento nel dicembre 1956, contro ventisette minatori accusati di avere occupato la miniera di contrada Ciavolotta, a Favara, per contrastare la solita serrata aziendale, in un contesto di crisi dei mercati, determinata sì dall’invadente concorrenza americana ma da scaricare, come sempre, sulle spalle dei più deboli, dei minatori.

Giacomo La Russa, quella sentenza, l’ha letta, l’ha meditata e ne è nato questo racconto lungo, I sepolti vivi (edito col patrocinio dell’ordine degli avvocati di Agrigento), che, oltre al fatto di reato nella sua essenzialità storica, ricostruisce l’ambiente sociale e lavorativo, la dimensione collettiva ed esistenziale in cui matura, con gli imputati trasformati in personaggi di un dramma di rilevanza politica. 

Leggerlo è stata una felice sorpresa sia per il tono composto e mai virulento, sia per la coerenza stilistica indifferente a tentazioni o tentativi di esibizionismo letterario, e sia, ancora, per il contenuto animato da un impegno civile che diventa pacato j’accuse nei confronti di uno Stato che nella pratica giudiziaria disattende quei diritti formalmente sanciti dalla carta costituzionale.

Questi risultati sono ottenuti grazie alla scelta dell’io narrante, affidata al “surfararo” Michelangelo Fanello, che dall’alto dei suoi novant’anni e da un divano da cui non si muove quasi più racconta al “gentile signore” che lo ascolta la lotta portata avanti per sei mesi che lo ha visto asserragliato con i compagni nel luogo di lavoro, sottoterra, nella pirrera.

Il racconto in prima persona di Michilà, come lo chiamano tutti, è molto di più che una soluzione narrativa; corrisponde in realtà a una esigenza estetica, politica, e se vogliamo anche umana, ancora più profonda: a quella di concedere o cedere il meno possibile alla letteratura, con l’effetto che lo stesso concetto di letteratura ne esce ridotto al suo grado minimo e necessario. È come ammettere che se l’autore ricorre all’escamotage letterario è perché certe cose si possono dire soltanto attraverso la letteratura, altrimenti (e la materia si prestava, eccome), al posto del racconto, avrebbe scritto un saggio, di storia, di diritto o di antropologia culturale. 

L’incipit evoca un episodio (per certi versi significativo riguardo all’autore) che è importante trascrivere qui di seguito :

 

Io e suo padre eravamo consiglieri comunali insieme una volta. Nel ’62, credo. Anche lui doveva avere saputo quello che era successo nove anni prima, perché un giorno, alla Stratanova, di fronte al magazzino dell’avvocato Riveli, mi chiese se non fossi io quello licenziato dalla pirrera. Io gli risposi di sì e lui mi guardò, fece passare qualche secondo e disse: “Senta, signor Fanello, e lo vorrebbe lei un impiego?”. “Certo” gli feci “se mi fa questa grande cortesia”. Ma io lo capii subito che era una trappola, un tranello. La capra non deve mai fidarsi del leone. Il discorso era che alla Democrazia Cristiana mancava un voto per il bilancio. Ma io allora ero un comunista, un comunista vero, no, non come adesso. Ci tenevo alla mia dignità e gli risposi di no, che non cambiavo faccia nemmeno per un posto di lavoro. 

 

Sin dalle prime righe del racconto dunque sono chiari i connotati identitari del personaggio Fanello, lontano sia dal pragmatismo interessato di certa politica (oggi diremmo della politica tout court), sia dai comunisti “come adesso”. In un’epoca in cui lo spazio letterario pullula di antieroi, La Russa, propone, senza perdere di credibilità, un personaggio controcorrente, un eroe positivo, pedagogico addirittura, che viene ad arricchire il mondo variegato e monocorde creato da scrittori e poeti sulla inumana realtà della zolfara.

In Sicilia la zolfara oltre a suscitare l’interesse dei viaggiatori stranieri, è stata fonte d’ispirazione letteraria da Verga a Pirandello, a Rosso di San Secondo. Ma chi ha saputo cogliere l’essenza del cambiamento di concezione di vita e di comportamento apportati dalla nuova struttura produttiva è stato Leonardo Sciascia che nello zolfataio ha visto incarnarsi un mondo antitetico all’atavica solitudine contadina, solitudine dolorosa, ma soprattutto chiusa a quella socialità che fa presto a germinare in coscienza di classe, organizzazione, forza politica.

Il racconto di La Russa sembra declinare l’intuizione sciasciana, s’impone come un’iniziazione alle dinamiche della democrazia.

In un clima di iconografia carbonara nelle viscere della terra, alla torbida luce dell’acetilene, attorno a un carrellino capovolto, gli zolfatai discutono, votano, scrivono le loro rivendicazioni. Il giovane Fanello mette nero su bianco quello che Peppe Stincone, il compagno con esperienza sindacale e linguaggio appropriato, gli detta:

 

“Dobbiamo dire tutto, partire dalla radice, dal fondo delle cose”, ci ripeté Peppe Stincone battendo con la mano aperta sul carrellino rovesciato. Eravamo seduti per terra, sulle nostre coperte, “Non dobbiamo parlare solo di noi e del nostro licenziamento. Non siamo qui per noi, ma per tutti, anche per quelli che non lo sanno o non lo capiscono ancora. Forza, scrivi Michilà!”

 

Sconfina nel sogno rivoluzionario, si fa progetto di una società diversa, la lotta contro il licenziamento, e quest’ampiezza di veduta sottrae la sconfitta finale al limbo della rassegnazione, al fatalismo dei vinti caro a certa letteratura nostrana. Dopo l’intervento di un onorevole, innominato, comunista, ambiguo e conciliante (forse, in quanto tale, in anticipo sui tempi) gli zolfatai lasciano la miniera per ritrovarsi alla luce del giorno licenziati e denunciati in attesa di essere giudicati.

Esperita l’impotenza della politica, diventa inevitabile la violenza della legge, col suo epilogo di condanna. Ma il processo ci riserva una sorpresa: è l’arringa della difesa, antiretorica, sobria, dimessa nel tono, ma eversiva nella sostanza, perché non critica la tesi accusatoria ma delegittima l’ordinamento, disconoscendone il rapporto vivo con la società reale:

 

Il presidente lo invitò a prendere la parola. Lui [il difensore] si alzò, ringraziò e si congratulò col procuratore della Repubblica. “Discorso perfetto”, disse. “Peccato che si rivolge a una società che non c’è”.

 

Il foglietto pieno di appunti usato dal difensore durante l’arringa, piegato in quattro, finisce nel portafoglio di Fanello, che ora novantenne lo estrae e lo mostra come una reliquia: un gesto che lascia alla sensibilità del lettore l’individuazione del suo significato.

Chiuso il libro, viene spontaneo il gioco mentale delle reminiscenze, delle somiglianze e delle analogie, utili a capire meglio quello che si è letto. Se il dovere del narratore è narrare, il diritto del lettore è l’intelligenza del non detto.

Oggi non esiste più la zolfara, non ci sono più zolfatai: un dato, questo, che induce a usare quel passato, a valersi della Storia per farne metafora spendibile nel presente alla maniera del Manzoni. Il racconto di La Russa, abbiamo detto, decanta la solidarietà consapevole, la spinta aggregante che Sciascia aveva visto come la novità sociale della zolfara. Questa particolare tematica che I sepolti vivi drammatizza con plastica eloquenza, oggi, fa si che l’opera non rimanga relegata al rango di recupero memoriale sulla scia di un “come eravamo”. In un tempo in cui giorno dopo giorno, passo dopo passo vediamo realizzarsi l’attacco a tutto ciò che crea comunità, aggregazione, appartenenza, identità, con i partiti che da tempo hanno chiuso le sezioni e i sindacati che disertano le piazze, il cittadino ridotto a semplice individuo vede crescere intorno sé la solitudine e la mancanza di punti di riferimento politici, sociali o comunque solidali. La Storia ha invertito corso. Pare sia stato un Rockefeller a dire che non è vero che la lotta di classe è morta, semplicemente hanno perso quelli che ne facevano bandiera. Cioè hanno vinto loro. Per questo accogliamo il libro di Giacomo con la gratitudine dovuta a un atto di resistenza.

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