mercoledì 20 marzo 2013

DIEGO GUADAGNINO, Giustizia e diritto

Antigone (Frederic Leighton, 1830-1896)
RELAZIONE TENUTA A  CANICATTI'
PALAZZO STELLA
2 FEBBRAIO 2013


Nel rivolgermi  a un pubblico di colleghi non posso fare a meno di rilevare  come la concezione che del diritto abbiamo noi avvocati sia quasi esclusivamente pragmatica, vedendo nella norma lo strumento operativo con cui legittimare e realizzare l’interesse del cliente. La più appariscente conseguenza di simile visione è la denigrazione della filosofia o alternativamente della poesia, come dimostra la  perfida frase destinata al difensore che  arringando  ha mancato di centrare la problematica del processo:  “ha fatto filosofia” o “ha fatto poesia”.

Questa chiosa a margine d’esordio lungi dal voler far torto al professor Vittorio Villa - che alla filosofia del diritto dedica le sue fatiche universitarie e che stasera mi siede accanto come correlatore, è  una personale  dichiarazione di solidarietà, perché, avendo pubblicato due libri di poesia, anch’io, caro professore, sono diventato parte offesa del denigrante pragmatismo forense.
Ma, dovendo trattare  del rapporto  tra giustizia e diritto, necessariamente dovrò inoltrarmi nei territori della filosofia e della poesia, poiché all’una e all’all’altra appartengono i due testi classici da cui si dipartono le  direttrici che nella cultura occidentale focalizzano il senso della giustizia che vive nell’individuo e l’imperativo normativo consacrato dal diritto . Mi riferisco  all’Antigone di Sofocle e al Critone di Platone.
In dette opere vengono prospettate due concezioni antitetiche dell’agire umano in relazione  alla giustizia e al diritto, due entità concettuali che nell’ideale dovrebbero coincidere ma nella realtà si trovano a essere una variante della  “quadratura del cerchio”, secondo cui il perimetro di un  poligono anche ad avere infiniti lati mai coinciderà con la circonferenza di un cerchio che non ne ha nessuno. E ciò perché mentre il senso della giustizia è legato al sentire profondo correlato al  dinamismo della storia che forgia i contenuti della coscienza  e i valori collettivi, il diritto è cristallizzato nell’immutabile positività  della norma, che, per quanto possa essere “interpretata” attraverso la giurisprudenza, non potrà mai perfettamente e completamente contenere le ragioni della giustizia.
Platone  teorizza una sottomissione del cittadino al diritto, fatto legge (e quindi istituzione, e quindi stato) che possiamo definire autoritaria. Nella sua polis le giuste ragioni individuali debbono tacere davanti alla legge, anche se ingiusta. Questa la tesi che viene sviluppata nelle opere politiche del filosofo di Atene, alle quali appartiene il dialogo di Critone.  
Critone, il giovane discepolo che va a colloquiare con Socrate in carcere, in attesa della esecuzione della sentenza di condanna a morte, rappresenta  la voce della giustizia che si ribella all’ingiusto verdetto; egli vuole sostituire il codice della polis con quello della propria coscienza attraverso un comportamento (procedura)  apertamente illecito e illegittimo, qual è quello di organizzare l’evasione del condannato. Si aspetta una risposta collaborativa da parte di Socrate, uomo sapiente per eccellenza. Ma Socrate lo stupisce con la sua reazione e lo ammaestra col suo ragionamento. Io non posso, gli dice, per una questione personale, qual è la mia condizione di condannato a morte, e per un fine egoistico, quale sarebbe la salvezza della mia vita, mettere in discussione le leggi che reggono la polis. Dal mio vantaggio  individuale ne deriverebbe una sciagura collettiva; perché dopo il mio precedente chiunque si sentirebbe legittimato a far prevalere le proprie ragioni contro le leggi della polis, che così, priva di autorità, si disgregherebbe nell’anarchia.  
Anche nell’Antigone, troviamo “idee” che diventano “personaggi”. Fuori le mura di Tebe giace insepolto il corpo di Polinice, fratello di Antigone, considerato traditore della patria per aver combattuto contro Tebe in una guerra fratricida tra tebani. Creonte, re tirannico e autoritario, dispone che a quel cadavere non venga data sepoltura affinché diventi pasto di rapaci. Ma Antigone, disubbidendo alla legge civile, ma ubbidendo a quella divina della pietas, nottetempo esce fuori dalla città e seppellisce il fratello. Scoperta, viene condannata a essere rinchiusa a vita in una grotta, dove si impicca.
Come si può notare, tra Antigone-giustizia e Creonte-istituzione s’interpone il cadavere di Polinice, che rappresenta il topos in cui s’incrociano  due  punti di vista opposti. Contrariamente a Socrate che rifiuta di fuggire davanti all’ingiusta condanna, Antigone sceglie di violare la legge, e col suo personaggio la disubbidienza civile diventa valore, fatto, questo, che ne fa  un   archetipo e un’icona della  sensibilità contemporanea.
Bisogna precisare infatti che l’enorme successo dell’Antigone è moderno, perché nel percorso della cultura occidentale, e fino a qualche tempo fa, è prevalsa la visione platonica. Dalla cella di Socrate sembrano venir fuori: Rousseau col suo contratto sociale, Kant con la sua legge morale, Hegel col suo stato etico. Tutti sono stati a colloquio col maestro, e tutti ne sono usciti convinti dalle sue argomentazioni.
L’evento traumatico che ha scardinato in modo definitivo tale concezione va individuato nel nazismo, nella sua politica aggressiva, nelle sue pianificazioni genocide. Al processo di Norimberga la tesi della difesa di alcuni imputati  è stata quella di aver eseguito ordini superiori a cui non potevano sottrarsi, ma la sentenza di condanna l’ha disattesa, legittimando per converso la disubbidienza nei confronti della legge ingiusta.  Non c’è dubbio che se processati nella Repubblica di Platone i gerarchi di Hitler sarebbe stati assolti. Su quei banchi occupati dai giudici delle potenze vincitrici e dai protagonisti della sconfitta Germania, idealmente si dibattevano a confronto i due testi di Sofocle e di Platone.
Dopo Norimberga in Europa vi fu un fiorire di rappresentazioni dell’Antigone, soprattutto in quegli stati a regime totalitario. L’idea drammatizzata da Sofocle, l’idea della deliberata e convinta violazione di una norma, nella società moderna comincia a essere esplicitamente rivendicata alla sfera del cittadino già nell’Ottocento col saggio di Henry David Thoreau (La disubbidienza civile, 1848). Thoreau non condividendo lo schiavismo legalizzato dal governo degli Stati Uniti, né l’aggressione imperialistica al Messico, si rifiuta di  pagare le tasse. Per effetto di tale decisione  viene imprigionato; non importa se per una sola notte  ( nell’immediatezza del fatto una sua zia  le tasse le pagò per lui), ciò che conta è l’esempio fondante dell’atto dissidente, il simbolismo dello strappo condensati a loro volta nel saggio-manifesto che grande diffusione avrà  nel Novecento ispirando uomini come Gandhi e Luther King.
Ma dietro la moderna concezione del rapporto giustizia-diritto, individuo-istituzione c’è soprattutto il lavorio dell’ala destruens della cultura filosofica europea, che vede i suoi principali protagonisti in Marx, Nietzsche e Freud. Nello loro analisi essi disintegrano i concetti classici di  morale, di diritto, di stato col  dimostrare che dietro le rassicuranti apparenze dell’involucro nascondono gli interessi di una classe, l’arroganza dei vincenti, la pulsione primordiale degli istinti . Non c’è dubbio che i  contributi critici di questi signori del disincanto abbiano  concorso  a  logorare i plurisecolari capisaldi della società, favorendo un lento processo evolutivo teso a riconoscere spazio e dignità all’autodeterminazione dell’individuo di fronte all’indiscutibile potere dello stato. Questa prospettazione decentralizzata  è  una rivoluzione copernicana: da un lato, lo stato attenua la sua assolutezza di entità super partes, dall’altro, il cittadino diviene compartecipe nella costruzione del concetto politico di “giustizia”. Il diritto all’obiezione di coscienza di fronte a determinati obblighi imposti da norme di diritto pubblico è uno dei casi in cui si manifestano gli effetti visibili di questo compromesso equilibratore. Lo stato arretra l’ambito di un  suo potere  rispettando e tutelando una scelta  dettata da convinzioni individuali del cittadino.
Le superiori considerazioni consentono di avvicinarsi con meno approssimazione e più rigore  analitico al rapporto vivo che unisce le due entità che costituiscono il tema della nostra conviviale serata. Tra le due quella più problematica da  racchiudere in una definizione  è senz’altro la “giustizia”. Ad essa  può applicarsi l’enunciato di Lao-Tze riguardante il tao: “il tao di cui si può parlare non è il vero tao”, nel senso che qualsiasi definizione non farebbe altro che impoverirne la natura. Così, tanto definita nel particolare è la singola  norma, quanto non congelato, non irrigidito in una definizione positiva ha da essere il concetto di giustizia, per il semplice motivo che la giustizia si radica e diffusamente vive nel cosmo culturale dell’individuo. Se la giustizia fosse Dio, allora noi dovremmo usare i parametri speculativi della teologia negativa, la quale tutto si concede tranne che definire Dio. Calcando il sentiero tracciato da tali precedenti, diciamo che il sentimento della giustizia emerge al livello della coscienza se sollecitato dall’ingiustizia, o più precisamente da una norma ingiusta, che paradossalmente finisce per avere il ruolo di stimolare in noi  il senso del giusto, il quale una volta attivato si riversa sulla norma e l’attacca e la combatte per modificarla. La giustizia diventa cognizione concreta  allo stesso modo del colpo di martello di cui parlava un maestro dell’antico Egitto al suo discepolo. Per diventare colpo di martello, gli diceva, è necessario che incontri una resistenza, altrimenti non è colpo di martello, è colpo a vuoto. Questo del  colpo di martello è un esempio pratico che possiamo tradurre in discorso filosofico attraverso la fenomenologia di Edmund Husserl. La coscienza per la fenomenologia non è entità che possa concepirsi in astratto : perché è sempre correlata a ciò che percepisce. Immancabilmente essa è  coscienza-di-qualcosa. Ora, se la giustizia è un sentire che sorge nella percezione di ciò che riteniamo ingiusto, possiamo dedurre e affermare  che la giustizia è coscienza dell’ingiustizia.
Ritornando al testo tragico di Sofocle: in esso l’idea di giustizia è rappresentata dalla pietas che muove Antigone ad agire; e  la pietas  non è  legge scritta da legislatori o da tiranni, è legge divina, la sua fonte è religiosa; in quanto tale non è  interiormente sentita  dai soli cittadini di Tebe, ma, non delimitabile da culture o da frontiere,  è valida in ogni luogo e per chiunque. La modernità laica ha ripreso questa peculiarità allorquando si è trovata nella necessità storica di individuare i principi-guida a cui devono conformarsi le leggi e le costituzioni degli stati. E’ avvenuto nella Rivoluzione Americana (1776) prima, e più marcatamente con la Rivoluzione Francese dopo. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (agosto 1789), di diretta derivazione illuministica, aveva come destinatario ideale non solo il cittadino francese, ma l’essere umano in quanto parte di una collettività organizzata, e quindi l’intera umanità. Ancora più esplicita in tal senso è la Dichiarazione universale dei diritti umani, stilata  in trenta articoli dopo la seconda guerra mondiale (1948), nella quale gli estensori hanno voluto usare l’aggettivo qualificativo “universale” che non compariva in quella precedente del 1789. Essa, mirando  a prevenire derive criminali  da parte dei governi , ha dato fondamento giuridico,  sul piano del diritto internazionale, alla Dichiarazione approvata dall’Assemblea Costituente della Rivoluzione Francese, che era, sì, documento d’indiscutibile civiltà giuridica avanzata, ma non era suscettibile di diventare vincolante sul piano internazionale.
Il ridimensionamento dello stato come depositario di verità assolute e la conseguente valorizzazione  della coscienza del cittadino, fino a legittimarne la disubbidienza in presenza di determinate condizioni, ha reso necessario ripensare l’individuo all’interno di nuovi equilibri/squilibri. Sotto l’egida dell’assolutismo statuale  egli  doveva  curarsi  soltanto di rendere compatibile la propria condotta con ciò che comandava lo stato, principio, questo, sintetizzato da Rousseau quando afferma che  libertà significa agire in armonia con la legge che noi stessi ci siamo dati. Oggi invece il concetto di libertà non sempre è sintonizzato con la legge adottata democraticamente, vi sono ambiti privati in cui va istituzionalmente tutelato  anche  il punto di vista della minoranza. Il singolo individuo è chiamato in prima persona a confrontarsi con nuove realtà e nuove responsabilità. Il suo senso di “giustizia” deve misurarsi continuamente con situazioni che lo rendono sempre più protagonista e sempre meno  passivo destinatario della norma statuale, in una dialettica che può assumere anche forme acute di conflittualità. La recente vicenda di Eluana Englaro, la ragazza vissuta per diciassette anni in stato vegetativo e deceduta per la decisone dei familiari di interromperne l’alimentazione artificiale, per le questioni che ha  sollevato sul piano etico-giuridico, è  caso esemplare di una partita  tra coscienza e diritto giocata all’insegna della giustizia.
Le problematiche relative  a ciò che è giusto e ciò che non lo è coinvolgono l’uomo d’oggi molto  più che in passato. Non si spiega altrimenti il successo di un filosofo come Michael Sandel, che con uno stile accessibile a chiunque riesce a raccontare il concetto di giustizia calandolo in casi concreti in cui si riconoscono l’intellettuale e la casalinga, il manovale e lo studente. La folla che assedia le sue lezioni ad Harvard e le sue conferenze all’estero ha spinto qualcuno a paragonarlo ai Rolling Stones. E cosa significa tutto ciò se non bisogno di sentirsi legittimati nelle impreviste e imprevedibili situazioni create dal rapido mutamento antropologico che stiamo attraversando?
L’uomo d’oggi per la prima volta nella storia, e indipendentemente dal punto geografico abitato in concreto, si ritrova a vivere  in una dimensione planetaria. La polis come entità territoriale con un dentro/fuori,  come struttura ideale entro cui concepire e collocare libertà, proprietà, equità, responsabilità ed altri valori che formano materia del diritto,  non appare più paradigma valido. Due fenomeni ne hanno determinato la crisi: la globalizzazione e il potere della tecnologia. Neanche la metafora del “villaggio globale” di  Marhall McLuhan  regge più di fronte alla fusione e/o coesistenza di culture diverse. Il “villaggio”  si è rivelato più complicato e per tanti aspetti più sconosciuto di quanto si potesse prevedere. E l’individuo deve sapersi destreggiare, mantenere la propria unità nell’eterogeneità, adeguarsi a modelli di esistenza e di convivenza che non rientravano nell’orizzonte del suo prevedibile.  Come ha rilevato Bauman, uno degli attributi della realtà “globale” è la solitudine. Il solidarismo nato con le società operaie nella seconda metà dell’Ottocento,  in una società “liquida” viene a mancare e il cittadino è  sempre più solo anche rispetto a quelle istituzioni  (per es. partiti, sindacati) che fino a ieri erano suoi punti di riferimento.
Sicuramente non è un caso che il maggior teorico della nuova condizione dell’essere umano sia stato uno studioso dello gnosticismo antico  e un filosofo della natura come Hans Jonas, autore de Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, opera pubblica nel 1979 e subito diventata il vangelo dei movimenti ecologisti. Il rapporto uomo-natura in passato interessava soltanto il sacro, la religione, le arti:   Jonas crea i presupposti teoretici ed etici perché diventi oggetto anche del diritto. La sua riflessione muove dalla considerazione di fondo  che la tecnologia ha trasformato la potenza dell’agire umano e reso vulnerabile la natura. Prima dell’avvento dell’era tecnologica, l’uomo era un elemento contenuto dentro l’ordine naturale;oggi la natura è diventata oggetto della sua potenza e ne può essere danneggiata e addirittura  distrutta. Da qui la necessità di una nuova etica della responsabilità dell’agire, l’esigenza improrogabile di nuovi sistemi normativi idonei a salvaguardare la sopravvivenza della biosfera, del genere umano, della vita sul pianeta. Nel quadro della nuova responsabilità, i concetti di giustizia e diritto vanno ripensati in una direttrice che coniughi dignità individuale e sopravvivenza collettiva.
La   visione  jonasiana è metafisica, nel senso che l’individuo viene riassorbito e giustificato nella totalità del cosmo, con la conseguenza che il suo singolo gesto può essere contemporaneamente atto cosciente e responsabile o variante impazzita e distruttiva del sistema che lo contiene. Questa visione unitaria  torna a ricucire l’ordito metafisico  lacerato dalla scissione tra spirito e materia, tra anima e corpo operata dal pensiero cartesiano,  sul quale aveva gettato le sue basi anche la scienza sperimentale. Cartesio e Galilei hanno tolto l’anima al cosmo e hanno messo la natura in mano all’individuo perché  ne facesse una macchina al servizio del della sua avidità. Il risultato devastante è sotto gli occhi di tutti.
Con uno schematismo funzionale alla chiarezza, possiamo dire che lo stato si dovrebbe  assumere il compito di tradurre in norme di diritto tutto quanto si vada appalesando necessario per salvaguardare  l’ambiente e assicurare la sopravvivenza della vita sul pianeta; il cittadino da parte sua, oltre a rispettare la norma, dovrebbe coltivare in sé una sensibilità che includa un rapporto vivo con tutto ciò che lo circonda, in modo da determinare quel cambiamento antropologico inteso a ridargli il posto che gli compete nell’armonia del cosmo.
In questo spazio interagente tra individuo e istituzione, oggi è calata un’ombra inquietante: il predominio dell’economia sulla politica (e sull’economia a sua volta quello della parte peggiore di sé, la finanza). L’impotenza della politica e la potenza del denaro fanno si che lo stato, come nella tragedia di Sofocle, ancora una volta si presenti con il volto di Creonte. Resta al cittadino la scelta sul come far rivivere lo spirito di Antigone.
                                                                                               
(Il tema “Giustiza e diritto”, comunicatomi dal collega Vincenzo Avanzato, con l’invito a intervenire, era così vasto da non potere essere trattato in maniera non dico esaustiva ma sufficientemente adeguata in una conferenza. Per quanto possibile ho cercato di tracciare un plausibile percorso dei due concetti nella cultura occidentale, incorrendo, purtroppo, in semplificazioni e generalizzazioni inevitabili. Gli aspetti del tema qui focalizzati meritano senz’altro specifici e singoli approfondimenti. Detto questo, mi preme precisare che codesto modestissimo contributo va inteso come un approccio per accenni  a un tema che lungi dall’essere “ostico”, a dire di qualche collega, ritengo tanto proficuo quanto appassionante.)

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